La musica che gira intorno / 6

In Musica

Tante le proposte questa settimana. Finalmente pubblicato in Italia Nearness, il bellissimo album targato Brad Mehldau & Joshua Redman, Ramin Bahrami si impegna con profitto nel clavicembalo ben temperato, e poi Cristina Branco, Fiorella Mannoia, e tra le ristampe un capolavoro di Terry Allen

Billy Bragg & Joe Henry – The midnight special/ The L&N don’t stops here anymore
Billy Bragg, inglese, ex punk e cantautore politico leftist (uno dei suoi album più belli si intitolava Talking with the taxman about poetry, da un verso di Majakovskij). E Joe Henry, americano, cantautore e produttore nonché cognato di Madonna. Che ci fanno insieme, in giro per le stazioni ferroviarie, le sale d’attesa e le banchine dell’America? Semplice, incidono dal vivo, voci e chitarre, come se fossero due busker, un album di “railroad songs”, di canzoni dedicate ai treni e all’umanità che li frequentava. Il disco si chiama Shine a light (****) ed è un gioiellino semplice e scarno di grandi brani che attraversano la storia americana e il suo paesaggio. Come The midnight special di Leadbelly (sua anche Rock island line), il treno che il carcerato vede dalla sua cella. Come la struggente The L&N don’t stops here anymore dell’appalachiana Jean Ritchie (ne fece una versione sublime che non si riesce a trovare in rete Michelle Shocked), la chiusura di una miniera e la fine di una città mineraria, la disoccupazione e la miseria in agguato simboleggiati da un treno che non passa più. Come Hobo’s lullaby (ma Railroad Bill racconta una storia simile), la ninna-nanna del vagabondo che era una delle canzoni più popolari del repertorio di Woody Guthrie. E come le mille solitudini che si perdono tra i binari, “mille miglia lontano da casa, in attesa di un treno” (Waiting for a train del frenatore Jimmie Rodgers, morto di tisi negli anni ’30). Un disco acuto come una nostalgia, dal cuore di un Novecento ormai lontano.

 

Brad Mehldau & Joshua Redman – Ornithology
L’album, Nearness (****), esce soltanto adesso, ma è stato registrato dal vivo nel 2011. Brad Mehldau, classe 1970, pianista di grande finezza armonica e di quieta introversione che può ricordare Bill Evans, avvezzo alla composizione ma anche alla rielaborazione di standard estratti dal pop e dal rock (Radiohead, Paul Simon, Beatles, Nick Drake), si misura qui con standard del grande repertorio jazz. Lo asseconda al sax tenore, passando nelle due composizioni di Mehldau Always August e Old West al soprano, il figlio d’arte Joshua Redman (suo padre Dewey è stato uno dei grandi partner di Ornette Coleman): con lui Mehldau aveva esordito nel 1990, tra i due coetanei l’intesa è perfetta. Sfilano così una Ornithology di Charlie Parker destrutturata e ricomposta, e le smaglianti In walked Bud di Thelonious Monk e The nearness of you di Hoagy Carmichael, sedici minuti di inseguimento reciproco tra i due. La maestria di Redman rifulge nel pastiche Mehlsancholy mode, omaggio al partner e rivisitazione di una song degli anni ’40 (di recente l’ha incisa anche Bob Dylan) che fece la fortuna del giovane Frank Sinatra. Un lavoro di serena bellezza, che merita ripetuti ascolti e si inserisce degnamente nella tradizione dei duetti tra sax e piano. Anzi, già che ci sono vi metto qui sotto un po’ di magistrali esempi del passato: Steve Lacy & Mal Waldron (Herbe de l’oublie, 1981), Stan Getz & Kenny Barron (Night and day, 1992) e Lee Konitz e Bill Evans (How deep is the ocean, 1965).

 

 

Ramin Bahrami – Il clavicembalo ben temperato, libro II di Bach
“Bach decide quando entrare nella tua vita, nella mia è entrato attraverso il suo messaggero canadese Glenn Gould”. Il quarantenne Ramin Bahrami (****), “persiano” di Teheran, in Italia da quando era bambino, racconta di essere stato folgorato, quando aveva cinque anni, dall’ascolto della Partita n. 6. Da allora si è dedicato a Johann Sebastian, diventandone uno dei maggiori interpreti mondiali. E adesso, dopo avere inciso tutto il Bach per tastiera, affronta il “quinto evangelio”, il Clavicembalo ben temperato, cominciando dal secondo libro che è il più vario e, allo stesso tempo, il più astratto. Il risultato è un lavoro interpretativo sottile, naturale e nobile.

 

Radiohead – Daydreaming/ Glass eyes/ Allah elohim
A vedere le anticipazioni di calendario e l’apertura delle prevendite (attenti ai bagarini), gli eventi live del rock 2017 saranno i Depeche Mode e, soprattutto, i Radiohead (il prossimo 14 giugno a Firenze e il 16 a Monza). Farà la parte del leone, si immagina, il nono album della band oxoniense uscito a maggio, A moon shaped pool (****). A me non era spiaciuto affatto, nonostante la delusione a mezza bocca dei fedelissimi, pur lontano com’è dai fasti elettronici di Ok computer e invaso da un sereno spaesamento (si veda Thom Yorke aggirarsi nelle stanze vuote di Daydreaming, nel video qui sotto girato da Paul Thomas Anderson), con le sue chitarre minimali (Desert island disk, Glass eyes) e il profluvio di archi, mai tanti archi come in questo disco. Il chitarrista Johnny Greenwood, che dei Radiohead cura gli arrangiamenti, è intanto in tour con il progetto Junun (****), che coinvolge il musicista israeliano Ben Tzur e l’ensemble indiana Rajahsthan Express. Musica piena di fuoco, festosa e vitale, come dimostra Allah elohim.

 

Stefan Asbury dirige Luciano Berio
Direttore ospite delle più grandi orchestre del mondo (di recente il Concertgebouw di Amsterdam e la Symponieorchester des Bayerischen Rundfunks), l’inglese Stefan Asbury (****), tra i più prestigiosi direttori di musica contemporanea, guida la Filarmonica della Scala il 21 novembre nell’ambito di Milano Musica. In programma musiche di Gérard Grisey, Olivier Messiaen e Maurice Ravel. Soprano Anu Komsi, mezzosoprano Ursula Hesse con den Steinen. Qui sotto, Asbury alla guida della Vienna Radio Symphony Orchestra, dirige Formazioni di Luciano Berio.

 

Kiefer Sutherland – Not enough whiskey/ Shirley Jean
Irène Jacob – La cigale
Gli attori che cantano il più delle volte sono deludenti. Negli ultimi anni, di veramente bravi ho ascoltato soltanto Billy Bob Thornton e Hugh Laurie, e mi è piaciuto l’album dedicato a Tom Waits da Scarlett Johansson. Non male ma niente di esaltante, invece, per i due cinquantini Kiefer Sutherland e Irène Jacob. Lui, il Jack Bauer della serie tv 24, con Down in the hole (***) fa un disco di “americana” più orientato al country che al pop: si può dare di più. Lei, attrice molto ammirata nei film di Kieslowski (La doppia vita di Veronica, Tre colori: Film rosso) e di Malle (Arrivederci ragazzi), con En bas de chez moi (**1/2) sforna un dischetto pop incerto fra la chanson e l’etnico, e sovente carlabruneggia. Avanti i prossimi.

 

Zucchero – Streets of surrender (sos)
Sting – Petrol head
A Parigi, a Parigi. Per la riapertura del Bataclan suona Sting (a sentire la nuova canzone, Petrol head, ***, c’è un po’ della vecchia grinta, un testo confuso e non molto altro). Tiene un concerto a Parigi anche Zucchero (è il Black cat tour che tocca varie tappe europee, mentre sta per uscire l’edizione deluxe del recente album, ***), e dedica per l’occasione alle vittime una canzone dell’album, Streets of surrender (**1/2). Il buon Fornaciari si premura di far sapere alla stampa che il nuovo testo è stato scritto dal suo amico Bono: un intruglio tiepido, con Parigi e l’amicizia e non voglio essere tuo nemico e il bambino morto sulle coste turche e il Bambino nato in una mangiatoia. Se si aggiunge che c’è un inutile cameo chitarristico di Mark Knopfler, si vorrebbe invitare le rockstar, quando si mobilitano per il bene, a usare anche la testa e l’ingegno oltre al loro flebile cuoricino.

 

Cristina Branco – E às vezes dou por mim/ Os indios da Meia-Praia/ Gaivota
Cristina Branco, ribatejana, classe 1972, fra le stelle del nuovo fado è l’artista per me più affascinante e congeniale, forse anche più di Misia e di Mariza. Nel nuovo album Menina (***1/2), dal quale ho scelto E às vezes dou por mim, scarnifica la formazione, optando per un fado da camera soavemente prossimo al jazz, con un trio di piano, basso e chitarra. E sceglie composizioni originali di nuovi autori e artisti, primi fra tutti i Deolinda. Ascoltatela però anche alle prese con il più grande autore portoghese, il magnifico José Afonso la cui Grandola vila morena diede l’avvio nel 1974 alla rivoluzione dei garofani (Os indios da Meia-Praia, ****). E con i versi della stupenda Gaivota (****1/2), gabbiano, che il poeta Alexandre O’Neill (tradotto in Italia da Joyce Lussu per Einaudi) scrisse per la grande Amalia Rodrigues.

 

Kate Tempest – Europe is lost/ Ketamine for breakfast
Una poetessa e romanziera al ventottesimo posto della classifica inglese. Lodata dal Guardian e dal Financial Times, dall’Economist e dalla Bbc, a dispetto dei contenuti urticanti che parlano dei guasti prodotti dalla finanza, di immigrati, riscaldamento globale, corruzione (in un brano si accenna anche ai trascorsi sessuali di David Cameron con un maiale). Accade per questo Let them eat chaos (****) di Kate Tempest, trentunenne londinese che usa lo strumento ostico dello spoken word, la poesia in musica (Linton Kwesi Johnson, qualcuno ricorda?) per costruire anche drammi teatrali che vengono messi in scena dalla Royal Shakespeare Company suscitando il consenso unanime. Lei cita tra le sue influenze Joyce, Beckett, Yeats, Blake, Auden e… i Wu-Tang Clan, tiene un corso alla London University ed è stata chiamata a dirigere l’edizione 2017 del Brighton Festival. Non il tipo di album che scorre via liscio come molta gazzosa pop, ma le basi alla Kraftwerk, i sintetizzatori new wave, certi giri di basso e certo dub svolgono egregiamente la loro funzione. Da ascoltare con attenzione, soprattutto se si ha dimestichezza con l’inglese.

 

Sly & Robbie e Nils Petter Molvaer
Attivi dal 1976, i giamaicani Sly & Robbie (****), ovvero il batterista Lowell “Sly” Dunbar e il bassista Robert “Robbie” Shakespeare, sono forse la sezione ritmica più famosa del mondo. Partendo dal reggae (Jommy Cliff, Peter Tosh), hanno collaborato con Dylan e Madonna, con Mick Jagger e Joe Cocker, con Serge Gainsbourg e con Marianne Faithfull, in Italia con Francesco De Gregori e Jovanotti. Da qualche anno suonano con il trombettista norvegese Nils Petter Molvaer (***1/2), pioniere della nu-fusion che fa incontrare jazz ed elettronica. Il 20 novembre, nell’ambito di Aperitivo in Concerto, suonano alle undici di mattina al Teatro Manzoni. Qui sotto, un’esibizione della formazione a Berlino nel 2015.

 

Cameron Carpenter – Toccata e fuga BWV 565 di Bach
Il ragazzo Cameron Carpenter, 35 anni, figlio di un ingegnere e cresciuto in una fattoria della Pennsylvania, come minimo non ha l’aspetto del concertista classico. Cresta da mohicano, fisico da culturista, scarpette da ballerina che si modifica da sé per adattarle alla pedaliera, attitudini sessuali “radicalmente inclusive” se a qualcuno può mai interessare, Carpenter è l’organista più famoso del mondo e la Sony Classical ha fatto uscire di recente All you need is Bach (a me che sono un rozzone scappa un ****). Merito anche della sua attitudine da nerd (ma il ragazzo ha fatto studi regolari alla Juilliard School of Music di New York), che lo ha portato a costruirsi un organo smontabile che si porta appresso in mezzo mondo, perché sentiva l’esigenza di avere uno strumento personale, come i violinisti e i pianisti, e di non esercitarsi in chiesa. L’organo portatile, grazie alla tecnologia digitale che gli ha consentito di campionare le sonorità dei più importanti organi di tutto il mondo, ha una gamma espressiva assai vasta. I risultati li ascoltate qui sotto. Se è una freakerie, è simpatica e molto ben congegnata.

 

Tony Malaby’s Paloma Recio/ Obambo
Gran disco quello del sassofonista Tony Malaby, 52 anni, nato a Tucson in Arizona e da un decennio di stanza a New York dove ha collaborato fra gli altri con Charlie Haden e Paul Motian. Incantations (****) è un post-bop rauco e fumoso, poliritmico e dissonante, allucinato e lirico, sostenuto da uno straordinario interplay e da un ferreo controllo formale degli episodi. Il quartetto Paloma Recio comprende, oltre al leader, musicisti di assoluto rispetto come Ben Monder alla chitarra elettrica, Elvind Opsvik al basso e Nasheet Waits alla batteria. Il brano qui sotto, che non appartiene al disco, dà un’idea dello stile grumoso di Malaby.

 

Oasis – Stand by me/The girl in the dirty shirt
E alla fine ristampano l’album sbagliato dei “sex Beatles” da Manchester, gli Oasis dei fratelli coltelli Noel e Liam Gallagher: Be here now del 1997 (***1/2), gonfiato con gli ormoni a ben tre cd con tanto di demo e outtakes, mentre avrebbero dovuto espandere il loro capolavoro (What’s the story) Morning glory del 1995 (****), che li proietta nell’olimpo delle rockstar con songs più beatlesiane dei Beatles come la peraltro trascinante Don’t look back in anger, ma non sempre l’originalità è la dote più richiesta in questa musica. Per carità, non che Be here now fosse brutto, e gli episodi qui sotto lo dimostrano, ma il songwriting di Noel cominciava a girare su stesso, nascondendo la ripetitività dietro muri chitarristici. Fratelli coltelli, abbiamo detto: come i fratelli Davies dei Kinks negli anni ’60, ma qui è peggio. Abele e Cabele, come si definiscono, si inseguono con mazze da cricket, estintori, cassonetti, si sfasciano addosso le chitarre, le anfetamine fanno il resto, fino all’ultima rissa e all’abbandono di Noel che mette fine alla band. Alla loro soap-opera adesso Asif Kapadia, già autore del bel documentario su Amy Winehouse premiato con l’Oscar, dedica un film che passa nelle sale in novembre.

 

Tatiana Larionova – Capricci 1 & 2 di Ludwig Schuncke
Il grande Shura Cherkassky l’ha definita “una meraviglia”: è la moscovita Tatiana Larionova, residente in Italia dove insegna all’Accademia Pentagramma di Milano. Di recente ha inciso un album delizioso quanto inatteso, la Piano music (****) di Ludwig Schuncke. Morto a 24 anni di tisi nel 1834, Schuncke è un minore che però conobbe e frequentò Chopin, suonò con Liszt e fondò con l’amico Robert Schumann la più importante rivista musicale dell’Ottocento. Lasciò soltanto quindici composizioni, ma preziose e leggere, delicate come porcellane e interpretate da Larionova con sapienza e levità. Sentire questo Caprice N°2 qui sotto per credere.

 

Jacky Terrasson & Stéphane Belmondo – Mother
Ancora duetti in jazz, ancora il pianoforte a dialogare, stavolta con la tromba. Protagonisti il pianista Jacky Terrasson, classe 1965, nato a Berlino da padre francese e madre afroamericana, e il trombettista Stéphane Belmondo, classe 1967. I due si erano conosciuti nel 1994, lavorando nella band di Dee Dee Bridgewater, e si sono reincontrati sei anni fa. Per l’album Mother (****) hanno inciso in tre giorni trenta brani, scartando quelli veloci e concentrandosi sulle ballad (e Terrasson, che ha accompagnato Betty Carter e Cassandra Wilson, le conosce bene) per conferire al disco un tono intimo e malinconico. Tra le ballad, da citare almeno Lover man, In your own sweet way e You don’t know what love is, ma non manca neppure la gloriosa chanson francese (Que reste-t il de nous amours di Charles Trenet) e You are the sunshine of my life di Stevie Wonder, vecchia passione di Belmondo che alle sue canzoni aveva dedicato l’album di esordio.

 

Jacob Collier – In my room/ You and I
Il suo concerto al Teatro dell’Arte della settimana scorsa è stato il più divertente del MiJazz. Divertimento anche circense, certo: vedere questo folletto ventunenne, londinese e autodidatta, passare dal piano alle tastiere, dalla batteria alla chitarra e al basso, aiutandosi con nastri registrati e distorsori, faceva un grande effetto. Jacob Collier sa tenere perfettamente la scena, e il suo album di esordio In my room (***1/2), che mischia Beach Boys e Take 6, Bobby McFerrin e Manhattan Transfer e ha suscitato l’entusiasmo di venerati maestri come Quincy Jones, Herbie Hancock e Chick Corea, è molto divertente. Per gridare al miracolo aspetterei ancora un po’, ma il ragazzo ha stoffa. Qui sotto, In my room in versione pianistica e da album.

 

Fiorella Mannoia – Combattente
Scommessa vinta a metà, scommessa persa a metà, quella di Fiorella Mannoia. Nel nuovo album Combattente (***1/2) aggiorna le sonorità, agganciandole all’elettronica, per lo più con buoni risultati, talvolta con qualche semplificazione e qualche eco di troppo, talvolta con effetti un po’ grossier (L’ultimo Babbo Natale di Giuliano Sangiorgi). E si affida a un manipolo di giovani autori (Fabrizio Moro, Federica Abbate, Cheope, Bungaro che giovane non è, Cesare Chiodo) con risultati buoni ma non memorabili, e con una ripetitività di fondo che, se ricorda la Mannoia del passato, non riesce a spiccare il volo. Questa vocazione “combattente” rischia di essere un po’ autoreferenziale, un eroismo fine a se stesso, un sorriso senza gatto: a Roma direbbero, combattente de che? Non mancano i buoni episodi, ma tutti in qualche modo un po’ vicari: come la bella I pensieri di Zo che però, inevitabilmente, rimanda a Sally. Come Nessuna conseguenza contro la violenza psicologica maschile, come L’abitudine che ho, forse il brano più d’impatto, orgogliosa e sofferta dichiarazione d’indipendenza sentimentale (ma io ho in mente Quello che le donne non dicono). Si chiude con La terra vista da lontano, maestosa quasi sinfonia di Fossati su testo della Mannoia: e ti chiedi se è il brano più bello dell’album o un alieno rispetto al nuovo mood musicale.

 

Saad Lamjarred – LM3ALLEN
Forse vi sarà capitato di leggere la notizia, i quotidiani l’hanno data il 4 novembre: la maggior gloria musicale del Marocco, e probabilmente la maggiore popstar del mondo arabo (il video che vedete qui sotto ha fatto finora 411.984.485 visualizzazioni, tanto per intenderci Perfect illusion di Lady Gaga viaggia a 49 milioni di visualizzazioni), il trentunenne Saad Lamjarred, è stato arrestato a Parigi per stupro, una ventenne è fuggita urlando dalla sua camera d’albergo sugli Champs Elyseés. Lamjarred non è nuovo a imprese di questo genere: era stato arrestato a New York nel 2010 con l’accusa di aggressione sessuale e aveva evitato la condanna lasciando il paese (ma a suo carico è in corso un procedimento penale che potrebbe costargli 25 anni di carcere). La novità è che della vicenda si è interessato il governo marocchino, che considera la popstar un patrimonio della nazione, e che re Mohammed VI pagherà le spese legali e ha chiesto da ingaggiare i migliori legali di Francia. La difesa di Lamjarred è, con ogni probabilità, una mossa di disinformazione, per distogliere i marocchini dalle massicce proteste in corso in tutto il paese in seguito all’uccisione di un pescatore del Rif, che cercava di difendere la sua merce dalla polizia che voleva distruggerla. Do la notizia senza stellette, soltanto perché ogni volta che ho l’occasione pesco dalla cronaca. E non valuto neppure la sua musica, ma metto in guardia dall’equivalenza tra uomo di merda e musica di merda.

 

Terry Allen – New Delhi freight train/ Amarillo highway
Torna un capolavoro del 1979, Lubbock (on everything), *****, del musicista e pittore concettuale Terry Allen. Attenzione a non confondere la musica di quest’album con l’alt-country, il tex-mex o affini. Ci sono, fortemente, anche queste sonorità, tanto da farne un progenitore nobile di quel genere che viene definito “americana”, ma Lubbock è soprattutto un lavoro di avanguardia. E le storie stralunate ed espressioniste, grottesche e caracollanti di questo torrenziale album sono una sorta di comedie humaine ambientata nella zona semispopolata del Texas nord-occidentale al confine con il New Mexico. La cittadina di Lubbock, al centro di questa zona, diventa per Allen cosmopolita, varia e frenetica quanto una metropoli. Una canzone (l’allucinata New Delhi freight train, la trovate qui sotto nelle due versioni) verrà ripresa dai Little Feat, mentre tutto l’album influenzerà i Talking Heads di True stories e l’omonimo film che ne ricaverà David Byrne. Scusate se è poco per un album registrato quasi in casa. Tra parentesi, su YouTube lo trovate in versione integrale.

 

Led Zeppelin – Sunshine woman / Dazed and confused
I Led Zeppelin continuano ad aprire i loro scrigni di rarità: e così i due cd dell’originario The complete Bbc sessions, uscito nel 1997, in questa lussuosa riedizione (****1/2) diventano tre, recuperando vecchie registrazioni del marzo 1969 che si credevano perse (anche una Sunshine woman mai pubblicata prima) e confermando l’impeto live che asciuga alcuni classici (Stairway to heaven) e rende torrenziali altri brani, come lo spettacolare Dazed and confused. Fuochi d’artificio soprattutto nel secondo cd, composto per la maggior parte di materiale live registrato a Parigi.

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