Pietro Rigolo: archiviare a un quarto d’ora dalla Pacific Highway

In Arte, Interviste

Da Venezia al Getty Research Institute di Los Angeles per curare l’archivio di Harald Szeemann. Qui Pietro Rigolo in un’intervista ci spiega il suo lavoro

Novembre 2011. Il clima era di per sé sospetto. L’autunno veneziano, fosco e umido, aveva ceduto per qualche giorno a un venticello caldo. Il mercatino delle pulci occupava felicemente una striscia di Campo Santa Maria Formosa e Bice Curiger, allora curatrice della 54° Biennale d’Arte, mangiava un gelato seduta sullo scalino della vera da pozzo.

La Fondazione Querini Stampalia ospitava HARALD SZEEMANN in context, convegno dell’Istituto Svizzero dedicato al celebre padre putativo del mestiere curatoriale (quattro mostre per definirlo: When Attitudes Become Form nel 1969, documenta 5 nel 1972, la Biennale di Venezia nel 1999 e nel 2001). Era mezzogiorno in punto quando un boato uscì all’improvviso dalla Querini, turbando le acque del Rio fino ai campielli vicini.

Uno scroscio d’applausi per il relatore più giovane del convegno, Pietro Rigolo, che esponeva un intervento intitolato La Mamma di Harald Szeemann. Appunti sullo studio di una mostra mai inaugurata. Rigolo venne immediatamente convocato a Los Angeles per diventare archivista presso il Getty Research Institute; il suo compito: catalogare lettera per lettera, foglietto per foglietto, l’immenso archivio che Szeemann raccolse in una vita di lavoro a contatto con artisti e idee. Venezia si dispiacque enormemente per aver perso quel giovane dal viso delicato e malizioso.

Per un po’ non si seppe niente di lui, perso tra le luci e la sabbia della California. Passato qualche mese, cominciarono ad arrivare strani messaggini: «Siamo alla D!» e poi «Siamo alla F!» e ancora «Siamo alla M!»; l’archivio si stava ordinando.

Nell’ottobre del 2014 Rigolo pubblica La Mamma. Una mostra di Harald Szeemann mai realizzata (Johan & Levi editore, pp. 63, 8 euro) . Il libro presenta le scoperte e gli studi che Rigolo ha compiuto indagando non su una mostra, ma su un’idea di mostra dedicata alla figura materna, un progetto che Szeemann lasciò nel cassetto.

Ciao Pietro. Il più grande tabù sopravvissuto al nostro tempo: madri che non amano i figli. Il primo capitolo del tuo libro apre con Votiv Bild, un disegno di Meret Oppenheim che raffigura una ragazza costretta nello scomodo ruolo di madre, lo chiami «amuleto contro la fertilità».  Chi erano le mamme diverse, le trasgressive, per Harald Szeemann?

pietro rigolo
Meret Oppenheim, Votiv Bild (Würgeengel), 1931, Privatsammlung © VBK, Wien, 2013.

La Mamma nello schema di Szeemann non ha bisogno dell’arte, in quanto attraverso il dono della vita accetta lo scorrere del tempo e la propria mortalità. Votiv Bild e chi l’ha creata sono quindi in un certo senso il contrario della Mamma: una ragazza all’epoca diciottenne che decide di uccidere il proprio istinto materno strappandogli il collo per divenire artista.

Le mamme “diverse” erano invece per Szeemann non le artiste, bensì alcune figure che pur rinunciando alla maternità biologica (o pur dovendo rinunciare ai propri figli) seppero farsi madri in maniera alternativa: medium (Emma Kunz), guide spirituali (Helena Blavatsky, Annie Besant, Mirra Alfassa), scrittrici (George Sand, Lou Andreas Salomé). Ebbero tutte vite per certi versi straordinarie; per farla breve dirò solo che i punti di contatto sembrano essere una sessualità atipica, e il tentativo di salvare il mondo divenendo madri dell’intera umanità, attraverso una rinascita spirituale, o un’altra rivoluzione che porti giustizia ed equità.

In La Mamma la psicanalisi compare un po’ ovunque: riporti l’interpretazione che Szeemann diede delle macchine celibi duchampiane attraverso i concetti di Io, Es e Super-Io, citi la teorie di Wilhelm Reich, celebre psicanalista allievo di Freud, e svariate volte Jung. Come definiresti il rapporto tra Szeemann e la psicanalisi?

Il lavoro di Jung e di Erich Neumann è naturalmente centrale per il tema della madre, e la trilogia delle sue mostre (in origine pensata come Macchine celibi – Mamma – Sole) visualizza degli archetipi che secondo Szeemann sono alla base della storia della cultura del XX secolo, e può essere letta secondo me come un tentativo di visualizzazione del processo di individuazione junghiano. Penso sia indiscutibile, e ne è prova il materiale in archivio, che Szeemann fosse estremamente interessato alla psicoanalisi, e propriamente alla psicoanalisi come filosofia fuori dal proprio campo d’azione: come nel caso di Otto Gross o Wilhelm Reich, intellettuali che hanno tentato di pensare un nuovo ordinamento sociale partendo dallo studio dei disordini del singolo, e ben presto ripudiati da Freud, non propriamente interessato a fare della propria disciplina uno strumento di lotta.

Racconti anche di come Meret Oppenheim si ribellò quando all’interno della mostra Le macchine celibi (1975) Szeemaan inserì Votiv Bild nello spazio dedicato alla femme fatale, una espressione che l’artista riferiva alla «proiezione dell’uomo sulla donna», alla «fantasia maschile». Questo aneddoto sembra travalicare le questioni di genere e punzecchiare direttamente il rapporto artista-curatore, poiché anche nella curatela più gentile l’opera viene trasformata dalla lettura che il curatore ne dà. Trovi che Szeemaan abbia mai ecceduto nella sua ermeneutica?

Szeemann in questi anni volta le spalle alle polemiche di documenta 5 – in cui diversi artisti rifiutano di partecipare, e altri come Smithson e Buren presero pubblicamente le distanze dal suo modus operandi, e invece di scendere a patti decide di radicalizzare il proprio approccio. In mostre come quelle della famosa trilogia (Le macchine celibi, Monte Verità, Der Hang zum Gesamtkunstwerk) – in cui cerca di visualizzare una visione personale del ‘900 e di reintrodurre nella lettura della modernità dottrine alternative quali anarchia, teosofia, vegetarianesimo, eccetera, la sua ermeneutica diviene la base di partenza e l’unico banco di prova per la mostra.

Szeemaan era vegetariano o vegano?

Non mi risulta lo fosse.

Dal tuo libro trapela l’immagine di uno Szeeman cerebrale e tormentato. Tu che sei il suo archivista, l’archeologo della sua mente, hai capito qual era il suo fantasma fondamentale?

Ho cercato nel libro di integrare lo Szeemann pubblico e professionale con il suo lato più personale e intimo, soprattutto perché di fatto da dopo documenta 5 queste due posizioni sembrano fondersi completamente. Negli anni Settanta, in un momento di grande incertezza in cui decide di non lavorare più per alcuna istituzione, affronta un divorzio e inizia una nuova vita in Ticino, il fantasma più presente sembra essere quello della famiglia, che poi si espande in un bisogno costante di ripensare in generale le relazioni sociali e lo stare insieme, un continuo altalenarsi tra lo slancio utopico e la tentazione dell’eremo.

In riferimento alle letture praticate da Szeemann citi spesso autori marxisti e trame che sfociano nella realizzazione di società utopiche comuniste. Tra due mesi Okwui Enwezor, direttore della Biennale 2015, ci darà l’opportunità di presenziare ad assemblee marxiste e d’intonare canti di lavoro ai Giardini e all’Arsenale, poiché parte della mostra sarà dedicata alla lettura de Il Capitale. Io sto pensando di tirare pomodori durante i canti di lavoro, Szeemann che avrebbe fatto?

Ahimè non sono molto al corrente dei piani veneziani – passo ancora molto tempo perso tra le luci e la sabbia della California… Quel che è certo è che per Szeemann il potere dell’arte era quello di puntare a mondi che non possono esistere se non nella mente dell’artista o nello spazio fragile ed evanescente della mostra, e in questo starebbe la sua forza politica e rivoluzionaria, nell’offrire una possibilità a quello che non c’è ancora, e che non sarà mai. Non è mai stato interessato all’arte politica, intesa come una pratica che cerchi di operare un cambiamento diretto della società. Non credo gli sarebbe dispiaciuto andare a cantare e bere nella sezione del PCI a Castello, in una pausa tra i Giardini e l’Arsenale, ma di certo non all’interno della Biennale.

Stai raccogliendo strani oggetti lungo la West Coast e costruendo il tuo archivio personale? Qual è la variante losangelina dei car boot sales?

La variante losangelina direi sono i grandi mercati delle pulci nei parcheggi degli stadi, come al Rose Bowl a Pasadena dove ho comprato una cintura con aquile e picchi innevati, e una camicia con rose gialle a sfondo nero che non ho mai messo, ma solo perché mi sta troppo grande. Per ora non ho un archivio, ma solo mucchi di carte in camera e in ufficio.

La Mamma e Szeemann sono molto coinvolgenti, ma tu saresti capace di rendere interessante anche un saggio sulle incrostazioni saline della Spiral Jetty di Smithson. Hai mai pensato di scrivere un romanzo?

Sì, ma sono pigro, preferirei non scriverlo e trovarlo già pronto, devo solo trovare il modo.

pietro rigolo
Robert Smithson, Spiral Jetty, Great Salt Lake, 1970.

A proposito, lo scorso weekend eri nello Utah. Come sta la Spiral Jetty?

Sta benone. Le incrostazioni saline se ne sono andate, l’acqua pure, ora è nera su un letto di fango secco grigiastro. Il Grande Lago Salato sembra essere allo stesso tempo il luogo dove la vita ha avuto inizio e dove si è estinta: è un paesaggio idilliaco, un quadro di Turner ma allo stesso tempo un ambiente estremamente ostile e violento. Ti ammalia per poi rigettarti. E se ci stai troppo come ho fatto io ti scotti in faccia.
Devo dire però che la vera sorpresa dal viaggio sono stati i Sun Tunnels di Nancy Holt e i mormoni. Ne parlerò nel mio romanzo.

È il 2017. Cosa stai facendo?

Sono a Los Angeles a lavorare su Szeemann ancora per un po’. Mi piacerebbe riavvicinarmi a Venezia e ai suoi gelati, ma per ora è troppo presto.

Foto: Particolare di un dipinto raffigurante una qualche scena biblica nel Visitor Center di Temple Square, Salt Lake City.

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