Torna Bertolt Brecht non per merito di Nanni

In Teatro

Il poeta e drammaturgo tedesco dopo la memorabile stagione strehleriana di nuovo in scena: si annunciano Puntila di Bruni e Frongia, il Galileo con Lavia e L’opera da tre soldi al Piccolo ma vista da Michieletto

Chiunque guardi Girls dopo aver letto il libro di Lena Dunham non saprà più dire se quello splendido tripudio di cellulite e ironia sullo schermo sia il personaggio Hannah Horvath o la sua brillante creatrice. Così come la solita domanda: quanto c’è di Woody Allen nei personaggi di Woody Allen interpretati da Woody Allen? Quel balbettio nevrotico che scorta ogni sua goffaggine: è lui o non è lui?

Ma se ci rifletto, ogni volta che sono al cinema o a teatro mi chiedo, con candida ingenuità, chi sto osservando veramente. Quasi per ogni attore che mi piace sento sempre lo stesso dubbio: un’interpretazione mi colpisce più per la sua “esattezza” – filologica, storica, empatica – o per l’attore, l’attrice, che è lì su uno schermo o sul palcoscenico con il suo volto e corpo, con la sua irradiante presenza? Di certo è chiaro per gli attori che non sopporto: non li sopporto perché sono proprio loro, qualunque sia il ruolo.

Riformulando la domanda: amo gli attori per quanto sono capaci di annullarsi, di dissolversi, o piuttosto perché riescono a «stare accanto al personaggio», come dice Margherita Buy in Mia madre? Per riassumere: stanislavskiani o brechtiani? E per tradurre – male -: immedesimazione o straniamento? Nonostante la citazione dal suo ultimo film, non va a Moretti il vanto di una teoria della distanza dell’attore, di una separazione visibile dell’interprete dall’interpretato. Nanni Moretti – che andrebbe inserito nell’elenco degli attori che ci piacciono perché sullo schermo sono (quasi) loro stessi – si fa portavoce delle indicazioni di Brecht, vecchie di quasi un secolo, e che lette di più potrebbero fare piazza pulita di tutti i luoghi comuni sui bravi attori, su quanto ci fanno piangere perché ci riconosciamo in loro.

A Milano la prossima stagione porterà tanto Brecht: le produzioni di punta del Piccolo e dell’Elfo, oltre che una densa rassegna al Parenti questo settembre. Un Brecht che latitava da anni, apparendo solo in occasioni isolate nell’ultima decina di stagioni: come con Arturo Ui di Orsini, Santa Giovanna dei macelli di Ronconi, Vita di Galileo con Branciaroli, la Madre Coraggio di Carsen e l’Opera da tre soldi di Bob Wilson.

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Sarà perché è difficile, magari noioso, temibilmente “didascalico”: Brecht pretende di insegnare, quindi è per forza démodé. Quando ho visto all’Elfo La resistibile ascesa di Arturo Ui mi sono innervosito per quei cartelli che ritraducevano la satira, che la spiegavano al pubblico, senza mai permettere un abbandono all’analogia storica del testo: carriera di Ui/ascesa di Hitler. Forse mi aspettavo una specie di Fattoria degli animali in versione Terzo Reich. Mi ero sbagliato, e mi sono indispettito. Con Madre Coraggio e Galileo, visti alla fine del liceo, non avevo capito fino a che punto Brecht potesse giocare col pubblico, quanto spesso potesse tornare sul palco e avvisarci: “niente di quel che vedete è vero, non cascateci, non siete mica qui per divertirvi”.

Per me era solo fastidiosamente pedante. Io, pazzo di Čechov e Ibsen, che mi commuovo anche solo ripensando al vecchio Firs, lasciato solo in casa mentre le prime scuri si abbattono sul giardino dei ciliegi… oso persino dei puntini di sospensione. Poi però viene in mente che il teatro nasce politico: lì nell’Attica, a ricercare una catarsi di cui non si capisce nemmeno bene il significato. Purificazione per contrasto, sfogo dello spettatore che vede inscenati i suoi incubi peggiori? Quindi ancora immedesimazione? O forse più che di liberazione si tratta di rivelazione. Perché il teatro è un artificio e imita la realtà: forse la catarsi ha più a che fare con la conoscenza, come dice Pierluigi Donini nella sua traduzione della Poetica.

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Ma se le cose stanno così, se il teatro è un atto conoscitivo – «senza conoscere non si può mostrare nulla» scrive Brecht nel suo Breviario – il pubblico diventa anch’esso parte attiva e Brecht, oltre ad avere ragione, non dice nemmeno una cosa così nuova: si fa interprete di un’idea più pulita di rappresentazione scenica, priva di strascichi psicologistici.

Il suo teatro, con le canzonette da cabaret, i cartelli esplicativi, le proiezioni, impedisce quella partecipazione meccanica da spettatore passivo e costringe chiunque a prendere posizione. I personaggi non sono più solo personaggi, perché «l’attore non deve soltanto cantare, deve anche mostrare uno che canta»: con Brecht «importa che chi indica sia indicato». Eccola qui la sua drammatica epica, grazie a cui lo spettatore non viene mai trascinato, ma riesce finalmente a «pensare al di sopra della corrente».

Obbligatorio il documentario Rai Giorgio Strehler mette in scena l’Opera da tre soldi, in cui il regista spiega come il testo di Brecht sia al contempo «piacevole e spiacevole», «divertente e pericoloso». Perché rispetto a spettacoli in cui si può essere sfaticati, Brecht richiede molto di più di un semplice svolgimento di trama: il suo lavoro non è solo «gastronomico».

E così quest’anno la coppia Bruni-Frongia all’Elfo prende Mr Puntila e il suo servo Matti, testo in prestito da Charlie Chaplin, Michieletto presenta la sua Opera da tre soldi al Piccolo sessant’anni dopo Strehler – Brecht stesso in sala alla prima, sei mesi prima di morire -, e al Parenti si può assistere al ciclo Brecht con altri occhi – da Baal, a La madre, a L’eccezione e la regola, a Terrore e miseria del Terzo Reich, uno dei progetti di Strehler mai compiuti.

Non è solo un anniversario: sessant’anni dalla morte. In effetti serve a tutti un Brecht che faccia stare scomodi sulle sedie, che sveli i trucchi e gli occultamenti di quel teatro godibile che ci ingabbia con lacrimevoli frivolezze. Brecht vuole liberarci, ma ci libera faticosamente, senza illuderci che le difficoltà, i dubbi e le perplessità di un personaggio possano essere risolte: nemmeno dall’attore che sale sul palco a prove ultimate. Ma è proprio nell’esibizione delle contraddizioni e degli impedimenti dell’attore stesso; nello straniamento del pubblico, che osserva la continuità tra l’imperfezione dell’arte e della vita; nella frustrazione di non poter mai giungere a una sintesi, almeno per chiunque graviti attorno all’edificio teatrale, che si realizza tale libertà.

Immagine di copertina: Mr Puntila e il suo servo Matti al Teatro dell’Elfo. Fotografia di Laila Pozzi

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