L’indio, il meticcio, il re dell’oro bianco nel western politico del cileno Galvez

In Cinema

E’ un’opera prima “Los colonos”, premiato al Festival di Cannes 2023. Terra del Fuoco, 1901: un militare inglese, un cowboy americano e il nativo Segundo si mettono in viaggio per “bonificare” a suon di cadaveri le terre di un latifondista. Ma anche lo stato centrale, che in seguito a un’inchiesta “riparatrice”, sette anni dopo, riconoscerà la crudeltà dei proprietari terrieri, chiederà agli indios di rinunciare alla loro identità. Un film ricco di amare verità storiche e di scenari gelidi e affascinanti

E’ un esordio decisamente riuscito quello del 40enne sceneggiatore e regista cileno Felipe Galvez – già autore di vari corti premiati a festival di spicco come Buenos Aires, Rotterdam e Cannes – che ha portato lo scorso anno al Certain Regard della Croisette Los Colonos, sceneggiato insieme all’italiana Antonia Girardi, vincendo il premio Fipresci della stampa internazionale. Ha rappresentato poi il Cile nella gara per l’Oscar al miglior film straniero, e pur non essendo riuscito a entrare nella cinquina finalista ha comunque allargato la sua presenza sul mercato mondiale.

Terra del Fuoco, Cile, anno 1901, José Menéndez (Alfredo Castro), detto “il re dell’oro bianco”, latifondista proprietario di terre sconfinate dove l’indio è un nemico da estirpare, organizza una spedizione speciale in cui lo spietato tenente britannico MacLennan (Mark Stanley) e il cowboy Bill (Benjamin Westfall) arruolano un ragazzo meticcio che “dicono sappia fiutare un indiano a un miglio di distanza”, Segundo (Camilo Arancibia), manovale e fuciliere precisissimo. Ubbidiente e disponibile, è lui a incarnare la zona grigia di chi disprezza i suoi compagni di missione e le loro gesta brutali ma allo stesso tempo non è capace di opporsi a loro (pur avendo occasioni per farlo).

Segundo si ferma a metà tra complicità e testimonianza, rendendo più intricato nel film il filo che lega la politica coloniale e le popolazioni che tale politica subirono: e questo pur diventando sempre più tragicamente consapevole che questa cavalcata “civilizzatrice” ai confini del mondo è destinata soprattutto ad accumulare cadaveri di origine Selk’nam. Del resto la direttiva iniziale del loro committente non era certo stata reticente: “Il problema sono gli indigeni. Saccheggiano le greggi. Aprite una via sicura e veloce verso l’Atlantico per le mie pecore. E ripulitela!”. Per gran parte ambientata on the road, dalle pianure alle foreste, dai piedi delle Ande al mare, la vicenda si chiude sette anni dopo nei salotti borghesi di Punta Arenas, dove un funzionario governativo magnifica un’inchiesta pubblica sugli abusi commessi dai potenti locali che si sono arricchiti a prezzo del sangue indiano.

Con uno sfondo andino estremamente affascinante, la Patagonia cilena glaciale e inospitale, che si fa a sua volta personaggio ben ripreso da Simone D’Arcangelo, e una colonna sonora ritmata dai timpani di Harry Allouche che non nasconde debiti morriconiani, Los colonos è un film istruttivo e inquietante, un’evocazione della violenza coloniale 4 secoli dopo l’arrivo nell’America Latina delle armate di Cortez e Pizarro. Che alla fine, quasi beffardamente, si compie mostrando il volto “civile” delle autorità nazionali, decise a fondare un Cile unitario, pacificato nelle sue componenti etniche. In cui gli indios accettino di dimenticare un passato di espropriazioni e torture, finendo ripresi (anche il cinema degli inizi si fa qui complice del potere) e immortalati in abiti e iconografia west (del resto il film cos’è, se non un western contemporaneo), per portare a termine un racconto storico fasullo di cui fa parte la cancellazione sostanziale della loro identità. Un esperimento di “volontaria” sottomissione alla cultura bianca egemone, vittoriosa.

Los Colonos di Felipe Galvez, con Sam SpruellCamilo Arancibia, Mark StanleyBenjamin Westfall, Alfredo Castro

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