L’appuntamento. La violenza della coscienza dei corpi

In Teatro

Marta Pizzigallo e Fabio Cherstich portano in scena fino all’11 aprile, con un lavoro evocativo e rabbioso, la “storia di un cazzo ebreo”, dove il corpo e il genere diventano il campo di battaglia su cui si indagano potere e nazismo

“Non mi sembra il caso di odiare un popolo perché odi il tuo corpo, o perché ti ricorda qualcosa che detesti di te stesso”. Nel sarcasmo lucida di una battuta c’è la ricchezza multiforme di “L’appuntamento – ossia la storia di un cazzo ebreo”, che l’intuizione di Andrée Ruth Shammah ha voluto trarre dal fortunato e fulminante romanzo di Katharina Volckmer, che torna in questi giorni in scena al Teatro Franco Parenti dopo le date dello scorso anno, affidato alla visionarietà di Fabio Cherstich, che trasforma un’asettica sala operatoria in un gioco ipercontemporaneo di lenti, dove come colpi di pistola esplodono schizzi simili a Pollock, che lasciano l’impronta di ombre inquietanti ad incombere sui fantasmi della storia. A cominciare da quelli che il perbenismo ha voluto nascondere, lasciando che macerassero dall’interno gli animi di chi porta la propria appartenenza come una colpa, non però da espiare quanto piuttosto da esporre in tutta la propria indicibilità. Se è impossibile strapparsi di dosso la propria identità di tedesca, l’unica strada possibile è portarla fuori di sé in forma di nuovo potere: quello del desiderio che si trasforma in istinto animale, o in una nuova narrazione, dove il sogno allucinato di amplessi con Hitler finisce con l’evocare, piuttosto, i tratti cannibalici di chi ha deciso di fare proprio il potere nel suo simbolo più connotato e crudele, nella declinazione più grottesca e spaventoso che la storia occidentale ricordi. Il campo di ogni battaglia, oggi, più di ogni slittamento al piano storico e sociologico, non può che essere quello del corpo, individuale e poi collettivo, dove la sessualità è territorio di conquista e il genere luogo di interrogativi e riscritture di sé. Diventa così evidente la natura meschinamente personale che regge ogni forma d’odio, e la specularità tra gli esiti nefasti dell’odio di sé quanto ad esso si conferisce il potere di diventare ideologia di morte e di sopraffazione. Al contempo, tuttavia, la riflessione non può che essere, anche, singolare. Così, Marta Pizzigallo, a tratti straripante  si trova ingabbiata in una simulazione di nudità che cancella l’unica parte della sua eredità sulla quale può agire e trasformare: il proprio genere, e l’intenzione di assumere un maschile non più sottomesso e quindi liberatorio. Rovesciando l’immaginario cupo dell’Almdovar de “La pelle che abito”, la transizione verso il maschile è questa volta agita dall’interno anziché da fuori (il medico, in scena, assume qui le fattezze di un manichino agito dalla volontà di chi parla, chiamato ad attribuire un nuovo sesso che porti il segno (la circoncisione) del popolo di cui chi parla si sente complice della vittimizzazione. In comune con il film c’è, però, l’azione come risposta estrema, e allo stesso tempo inevitabile, a un atto violento che qui, più che puntuale, è però strutturale. È sui corpi che si scrive la storia, è sui corpi che si legge, oggi, il rapporto dell’individuo con la società. In questo senso, “La storia di un cazzo ebreo” portata in teatro è un’efficace evocazione del concetto di bio-politica come lo potrebbe intendere Paul B. Preciado, ma in cui si assume, nel modo più urticante, violento e senza filtri, l’obiettivo di praticare una soglia “dissidente”, che quanto più si pretendono accomodanti e risolti sfugge alle categorizzazioni e agli immaginari. L’individuo in itinere che Marta Pizzigallo si trova a incarnare evoca gli esiti più estremi dell’Erodias testoriana ma anche il rapporto parossistico e perverso con il nazismo che emerge dalle donne dei testi di Sgorbani. Ed esige, dentro un’architettura di luci livide, scenografie immobili e rumori sempre stordenti, il coraggio della rabbia, l’enfasi del mostruoso, e un’interprete potente capace di farsi sia corpo ferino che manichino quasi disarticolato. Marta Pizzigallo si muove con grande espressività e padronanza dentro a tutto ciò che è disturbante senza mai renderlo ridicolo, amplificando i suoni che produce chi, insieme alla metafora sessuale rimastica parti di sè. Pur senza perdere una fascinazione di fondo, offerta da un testo che consente anche passaggi letterariamente raffinati, e giocando con l’orrore e il disgusto, porta in scena la rabbia e l’odio per come solo la scena consente di raccontarli: perché è solo attraverso gli abissi della rabbia che si può toccare il fondo di se stessi, solo sopravvivere all’odio da gli strumenti di una nuova consapevolezza e, persino, solo l’abbraccio stretto tra desiderio e morte può condurre a una nuova nascita, anche a prezzo del sacrificio di chi, come M, pittore e amore scoperto impossibile, con la morte ha flirtato dopo averla sognata ed evocata fin dall’infanzia. Ne emerge un lavoro complesso, ricco e capace di sfiorare gli estremi senza farli sembrare gratuitamente provocatori, di cui allo spettatore resta attaccato addosso un precipitato, come una fuliggine nera tutta da elaborare, e – come sempre accade quando il terreno imposto per l’analisi sono i corpi – una grande quantità di domande, che chiedono di riportare alla misura del simbolo l’eccesso programmatico di concretezza. Che cosa, allo specchio di quel corpo, è un pezzo di quel corpo riscritto – liberato? – con la forza e da un atto di forza mi posso riconoscere?

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