Giovanna Marini, interprete dell’Italia migliore

In Musica

Altro che pasionaria del folk. La cantautrice è stata una musicista colta che incrociò i canti contadini con il madrigale, l’oratorio, il poema sinfonico. Una grande artista, che dentro le parole delle sue ballate vedeva le persone. Un’intellettuale tra le più importanti degli ultimi settant’anni

Per sgombrare il campo bisognerà prima di tutto dire che cosa non è stata Giovanna Marini (1937-2024), l’ultima grande di quell’impetuoso movimento musicale che chiamarono folk revival e che negli anni ‘60 con Nuovo Canzoniere Italiano, assieme ai cantautori, scosse dalle fondamenta la casetta in Canadà della canzone italiana, mandando in soffitta papaveri e papere, vecchi scarponi e languide cantantesse avvinte come l’edera. Giovanna Marini non era “la Joan Baez italiana”, non era “la pasionaria della canzone popolare”, come hanno scritto in questi giorni con pigra sciatteria i giornali. Era una musicista colta che abbracciò i canti contadini incrociandoli e contaminandoli con gli stilemi formali dell’accademia (anche il madrigale, l’oratorio, la cantata, il poema sinfonico) per creare una musica contemporanea sorprendente e varia, uguale a nessun’altra, immediata e complessa al tempo stesso. Un’artista senza nessuna ingenuità che con le sue lunghe ballate si era posta l’obiettivo di fare, parole sue, «un grande racconto della vita italiana attraverso i suoi linguaggi». Un’artista che dietro quei linguaggi, dentro quei linguaggi vedeva le persone.

Lavorare con i linguaggi. Mescolando il trecentesco Laudario di Cortona con il Miserere di Santu Lussurgiu in Sardegna, il cantastorie Giuseppe Miriello di Matera che prendeva a bersaglio i potenti («E lu mnestre Colombe ha fatte nu proggette/ ha fatte nu proggette pe li disoccupati») e il pugliese Matteo Salvatore che intonava il dolente e antifrastico «Padrone mio te voglio arrecchire/ Come nu cane i vò fatijà/ E quanne sbaglio tu damme le botte/ Voglio la morte nun me caccià». La combattiva Giovanna Daffini, mondina di Gualtieri in Emilia («Addio morettin ti lascio, finita è la mundada/ tengo un altro amante a casa/ che migliore è assai di te»), con sarcastici canti abruzzesi («Picurare mangia ricotta/ Va alla chiesa e nun s’inginocchia/ non se leva lu cappellitto/ picurare sia maleditto»). 

Oggi che abbiamo smesso di risciacquare i panni in Arno e che la narrativa italiana, da Camilleri in giù, ha recuperato i dialetti, non ci si fa quasi più caso, ma all’inizio degli anni ‘60 fu la rivoluzione. Che contagiò anche la canzonetta: Domenico Modugno (Amara terra mia) e Gigliola Cinquetti (La domenica andando alla messa). E in seguito i cantautori: quanto Francesco De Gregori (La ragazza e la miniera, Vola vola, L’abbigliamento di un fuochista non a caso eseguito con Giovanna Marini) e quanto Vinicio Capossela, per dire soltanto i maggiori, abbiano attinto a quell’esperienza fondante è capitolo tutto da scrivere.

Musicista colta, non pasionaria. Giovanna Marini – il cognome è quello del marito Pino, fisico nucleare dal quale si separò presto e con il quale restò in amicizia per tutta la vita – era figlia di Giovanni Salviucci, morto a trent’anni quando lei nasceva, musicista importante allievo di Respighi e amico di Casella (da ascoltare almeno Serenata per nove strumenti). E di Ida Parpagliolo (1904-1994), insegnante di armonia all’Accademia di Santa Cecilia, compositrice e tra le prime donne a dirigere un’orchestra. Va al conservatorio ragazzina, Giovanna, si diploma in chitarra classica nel 1959, prima in Italia, e si perfeziona con il mostro sacro delle sei corde Andrés Segovia.

Uscita dal conservatorio suona nei salotti intellettuali per guadagnarsi i primi soldi e in una di quelle serate, mentre esegue Bach e nessuno la sta a sentire, si avvicina un uomo gentile che le chiede di cantare qualcosa. Lei ha un moto di fastidio: il solito cretino che vuole una canzonetta, pensa. E intona un inno religioso che “stava nei libri”. L’uomo ribatte, pacato: prima che nei libri, questi canti stavano nella vita, erano tradizione orale. L’uomo gentile è Pier Paolo Pasolini che ha appena pubblicato il Canzoniere Italiano, quell’incontro le cambierà la vita. Poi c’è la parentesi americana (nel 1965 le ispirerà l’album di esordio Vi parlo dell’America: impetuoso e spietato reportage, quasi punk con il suo talking blues che anticipa il rap di mezzo secolo e al tempo stesso lo supera, di sorprendente modernità) e, al rientro in patria, l’esperienza di Bella ciao.

È, questo, uno spettacolo di Roberto Leydi e Filippo Crivelli che va in scena al Festival dei Due Mondi di Spoleto nel 1964 suscitando polemiche a non finire e imponendo la partigiana Bella ciao fino ad allora semisconosciuta. Quando il Nuovo Canzoniere Italiano – con lei ci sono Sandra Mantovani, Giovanna Daffini, Maria Teresa Bulciolu, Caterina Bueno, Silvia Malagugini, Cati Mattea, Michele Straniero e il Gruppo Padano di Piadena – intona O Gorizia tu sei maledetta si scatena l’inferno. Un ufficiale presente in sala inveisce contro di loro e li denuncia per vilipendio alle forze armate, i fascisti cercano di interrompere lo spettacolo. Giovanna Marini fa l’ingenua o in quel 1964 è davvero ingenua: «Chissà perché si arrabbiano tanto per una bella melodia in la minore» commenta. Lei in quello spettacolo ha proposto anche un “canto popolare abruzzese” che è un falso scritto da lei: Lu cacciatore Gaetano che trova “una coccia de cristiano sienza lo truncò”, è accusato di omicidio dai carabinieri e scagionato dalla Vergine Maria alla quale un capitano chiede i “documenta” sentendosi rispondere un candido “nun cinni tenghe”. Una Madonna che sta con il popolo, come la Vergine della meravigliosa e posteriore Evviva Maria che viaggia senza biglietto, la Maria zingarella che viene dalla Turchia per insegnare la via ai pellegrini e ai prigionieri. Eccola all’opera, la contaminazione che reinventa e svela il senso profondo del sentire popolare invece di limitarsi al ricalco. È quel che avviene in teatro con il Mistero buffo di Dario Fo, inevitabile che i due si incontrino: e Giovanna Marini sarà assistente musicale di Fo in un altro spettacolo storico, Ci ragiono e canto del 1966.

Intanto la sua carriera di etnomusicologa e interprete decolla. Per l’Istituto Ernesto De Martino raccoglie centinaia di canti, inventando anche un sistema di notazione che tenga conto delle peculiarità di quelle musiche, dei quarti di tono, dei microintervalli, dei timbri insoliti degli interpreti registrati con il magnetofono. E per i Dischi del Sole incide una serie di album destinati a restare: Chiesa chiesa e otto canzoni popolari (1967), Lunga vita allo spettacolo/ Viva Voltaire e Montesquieu (1968), Controcanale ’70 (1971). C’è anche la sua voce in Contessa e Valle Giulia di Paolo Pietrangeli, le cui musiche paragona a quelle di Niccolò Jommelli, compositore del ‘700 napoletano. Perché Giovanna Marini è così, in un canto popolare trova le affinità con Gesualdo da Venosa e con Claudio Monteverdi. Si continua con lo splendido viaggio in Italia di La nave (1972) che ha al suo interno anche la cantata ferocemente antifamilista La creatora, per concludere con L’eroe, ballata nuova (1974) e con uno dei suoi vertici artistici, I treni per Reggio Calabria (1975).

Ballata di rara forza epica e intenso lirismo, I treni per Reggio Calabria, che ricorda la manifestazione promossa dai sindacati nel 1972 in solidarietà ai lavoratori calabresi, contro la sommossa neofascista che aveva insanguinato la città. Michele Serra l’ha definita, con asciutta esattezza, un’Iliade della classe operaia. È una ballata che ho profondamente cara, per l’ empatia con gli ultimi, con quelli che allora chiamavamo “ceti subalterni” e dai quali anch’io provenivo. Quelli che «aspettano, che è tutta una vita che stanno ad aspettare/ per un certificato mattinate intere/ anni e anni per due soldi di pensione». Il vecchio emigrato nelle baracche di Zurigo che “piange vecchio e solo” e quell’altro che lo va a consolare: «Non piangere compare, sciamme che ti fa male». E io pensavo a mio padre, che ancora faticava e che qualche anno dopo sarebbe morto senza averli, quei due soldi di pensione. E mi sentivo compreso e risarcito da quel canto.

Il 1974 è l’anno spartiacque, per la canzone militante: è arrivato il terrorismo, e per Giovanna Marini sono tempi di angoscia, di un limite che è stato superato e nel quale è impossibile riconoscersi. La militanza prenderà le strade, più sotterraneamente impegnate ma più ricche e duttili, della didattica e della sperimentazione. La didattica (e l’incontro con il jazz e con le altre musiche non commerciali) la porta a fondare, proprio in quel 1974 disperato, la Scuola Popolare di Musica del Testaccio, di cui sarà presidente e che diplomerà almeno un migliaio di musicisti. E sempre improntata alla didattica sarà la cattedra di etnomusicologia all’università Paris VIII-Saint Denis di Parigi.

All’insegna della sperimentazione che amalgama canto popolare e tradizione colta in un’azione scenica fatta di polifonia, improvvisazioni e narrazioni (la Marini era sul palco affabulatrice in grado di incantare) è nel 1976 la creazione del Quartetto Vocale con Francesca Breschi, Patrizia Bovi e Patrizia Nasini. Prima, negli album di quel periodo (Correvano coi carri e La grande madre impazzita del 1979) era stata lanciata da lei un’altra grande interprete, Lucilla Galeazzi (andatevela ad ascoltare nelle collaborazioni con L’Arpeggiata di Cristina Pluhar). Con il Quartetto Vocale, in centinaia di concerti, Giovanna Marini metterà in musica i poeti (il Lamento per la morte di Pier Paolo Pasolini è un capolavoro: «Persi le forze mie, persi l’ingegno/ la morte m’è venuta a visitare»), dal liquido friulano di PPP alle sue Ceneri di Gramsci, da Oscar Wilde a Leopardi e Montale; canterà “l’ineffabile incertezza del non temperato” (Sibemolle), la Dichiazione dei diritti dell’uomo e, con Marco Paolini, la tragedia dell’aereo Itavia che esplode in volo sopra Ustica.

Nel 2002, Francesco De Gregori le regalerà una popolarità di massa incidendo assieme a lei il notevole Il fischio del vapore e nel 2003 le produrrà il bello e toccante Buongiorno e buonasera facendola accompagnare dalla sua band. E suscita ammirato stupore vedere Giovanna che canta accompagnata anche da Greg Cohen, bassista di Tom Waits; lei che, dichiarazione in tono con la musicista per niente tetragona che era, diceva di ammirare Frank Zappa.

Didattica, Quartetto Vocale e tanto altro: colonne sonore (ventotto, per Citto Maselli, Nanni Loy, Paolo Pietrangeli e altri), musiche di scena per il teatro (trentuno, da Sofocle a Euripide a Eschilo a Pirandello a Goldoni), più sedici opere e poemi sinfonici e molti festival. È rimasta attiva fino all’ultimo, Giovanna Marini: nel 2021 cura la concertazione de Il Partito, dal Diario dei trent’anni di Camilla Ravera, musiche originali di Fausto Amodei, per i cent’anni del Partito comunista. E nel 2023 interviene allo Stupore Festival Treccani della lingua italiana. Sempre nel 2023, riceve il XXXI Premio Internazionale “San Francesco e Chiara d’Assisi” per il dialogo fra i popoli e le loro culture, promosso e organizzato dal Centro francescano internazionale di studi per il dialogo fra i popoli. 

Altro che pasionaria del folk, Giovanna Marini è stata fra le intellettuali più rilevanti degli ultimi settant’anni. Espressione alta dell’Italia migliore, e dei migliori anni della nostra vita.

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