Pozzetto Genius Loci, tra architettura e design

In Arte, Cinema

Vittoria Caprotti, giovane storica dell’arte, grande tifosa dell’Inter, vorace lettrice di Giorgio Manganelli e della guida “Osterie d’Italia”, amante di Milano, dell’astrologia e dei gatti, in concomitanza con il Milano Design Film Festival ci delizia con un appassionante e brillantissimo excursus sulla sua città, con la sua architettura, il suo design e il suo indiscutibile Genius Loci: Renato Pozzetto.

Tra 2019 e 2020 a Milano (e non solo) impazzava il dibattito relativo alla liceità della statua di Indro Montanelli nei giardini di Porta Venezia; il 15 luglio 2020, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Renato Pozzetto celebrato il giorno precedente, Michele Masneri sulle pagine de “Il Foglio” consigliava a Beppe Sala di prendere in considerazione proprio l’attore, comico, cabarettista, cantante, sceneggiatore e regista autoctono come soggetto per un nuovo monumento e per la ri-titolazione dei giardini. Se il sindaco avesse accolto la proposta di Masneri, io sarei di certo stata in prima fila al taglio del nastro per l’inaugurazione dell’unica statua che sarebbe necessaria in città. Non è questione di simpatia, bensì di genius loci, di identità locale, nonché di affinità personali. Pozzetto nella vita così come nell’arte – anche nel duo con Cochi Ponzoni – è spesso stato il campagnolo trapiantato in città e da buona, fiera provinciale ho sempre empatizzato con i suoi personaggi. Questo trasloco fisico e morale raggiunge il suo culmine nel 1984 con “Il ragazzo di campagna”, quando Artemio – il personaggio interpretato da Pozzetto – paga 10mila lire di corsa in taxi perché non riesce, poco abituato al traffico milanese, ad attraversare la strada in una piazza San Babila ancora ampiamente aperta alle macchine. Lo scambio tra Artemio e il taxista si chiude così: “Senta, mi piacerebbe visitare il Duomo, da che parte si trova?” – “Dunque, prima deve riattraversare la strada” – “No, il Duomo non mi interessa più”. Il Duomo – l’unico monumento milanese se si chiede a un romano – viene del tutto evitato per non rischiare di spendere altri soldi o di rimanere bloccati tra le auto buttandosi sulle strisce pedonali. È un po’ il trionfo dell’assurdo, un po’ la spiegazione di come funziona la città meneghina nell’immaginario collettivo italiano: fretta e soldi sì, storia e cultura no.

Eugenio Ronconi (Renato Pozzetto) e Stanislao (Piero Mazzarella) sulle terrazze del Duomo (da “Un povero ricco”)

Il Duomo, qui rimosso, l’anno prima era stato protagonista della scena di “Un povero ricco” in cui Pozzetto – che nel film, novello san Francesco, abbandona le sue immense ricchezze cercando di sopravvivere tra le case popolari e la strada – accompagna Piero Mazzarella nei panni del barbone Stanislao a pranzare, armato di fornelletto, tra le guglie. Anche in questo caso le battute sono del calibro di: “E perché i milanesi hanno costruito il Duomo?” – “Perché sapevano che un giorno ci sarei venuto a mangiare io”. Il simbolo di Milano è messo alla berlina in un’ottica utilitaristica che di attento agli aspetti storico-culturali ha ben poco. Tuttavia, la sua sola presenza come landmark è sufficiente a far capire l’affetto genuino – e, dunque, resistente agli scherzi – che i due personaggi provano per lui.
Abbastanza tautologicamente, considerato il titolo, il filo conduttore di “Un povero ricco” è il contrasto tra classi sociali, tra padroni e lavoratori, tra quelli che vivono in via Hoepli davanti al Disco Grande di Arnaldo Pomodoro (1972) e quelli che vivono in periferia e devono prendere un autobus strapieno per andare a lavorare. È, per l’appunto, un contrasto che passa in primis dal problema dell’abitare: Renato Pozzetto già a inizio anni ’80 affrontava un tema che è per noi pane quotidiano. Lo affrontava con la leggerezza che il medium “commedia italiana” necessitava, ma lo affrontava eccome; così come trattava – e Masneri nell’articolo citato in apertura lo spiega assai bene – problemi di genere e sessualità, ma pure, a modo suo, di body positivity maschile, tutti centrali nel dibattito odierno. Insomma, Pozzetto nel XX secolo è stato all’avanguardia, proprio come Milano, la sua architettura e il suo design.

Eugenio Ronconi (Renato Pozzetto) arriva al complesso residenziale Casa Bella a Gratosoglio (da “Un povero ricco”)

In “Un povero ricco”, quando abbandona la vita agiata, Pozzetto si trasferisce nella periferia sud di Milano, al diciottesimo piano – con ascensore rigorosamente fuori uso – di una delle imponenti torri bianche di Gratosoglio, progettate nei primi anni ’60 dai BBPR. Peraltro, nel film il complesso residenziale si chiama “Casa bella”: da una parte è ironia viste le condizioni dello stabile; dall’altra pare un occhiolino all’omonima rivista di architettura e design che, insieme a “Domus”, ha più segnato il dibattito critico di settore del Novecento. Per il protagonista l’arrivo nell’appartamento – un ampio monolocale, ad avercene oggi – è traumatico: la porta cade mentre cerca di aprirla, un’anta della finestra si stacca, la tapparella lo intrappola cadendogli addosso, non c’è il riscaldamento. La salvezza proviene dalla porta accanto, dove vive Marta (Ornella Muti) che paga 80mila lire d’affitto al mese e odia i ricchi che diventano ancora più ricchi sulle spalle della povera gente. Non sono poche le scene ambientate nell’edificio di Gratosoglio, specialmente nell’appartamento di Marta che finirà per innamorarsi, ricambiata, del protagonista. I due andranno a vivere in una casa galleggiante risistemata da Stanislao, il quale, nel mostrare la dimora a Pozzetto, spiega: “L’ho arredata così perché va di moda il Made in Italy” (pronunciato “made in Italì”), ben prima che creassero un ministero ad hoc! In quella che sembra un’insanabile opposizione tra ricchi e poveri, tra signori e sottomessi, tra centro e periferia, è proprio Stanislao – che un lavoro e una casa non li ha – a fornire degli spunti alternativi. In primis quando, dopo il pranzo sulle terrazze del Duomo, accompagna Pozzetto fino alla Pinacoteca di Brera e dice: “Io sono l’uomo più ricco del mondo: mangio sul tetto del Duomo e vengo a digerire qui, in mezzo a queste meraviglie”. Certamente una commedia di due ore scarse non è il “luogo” in cui risolvere il problema, ma è quello perfetto per iniziare a porlo sotto gli occhi del grande pubblico, e già negli anni ’80, quando la città lombarda era la frivola “Milano da bere”: il problema della lontananza delle fasce meno abbienti dal godimento della bellezza collettiva, perché le priorità sono altre – è sempre il solito discorso, il corpo e lo spirito. Poi: la casa-barca di Stanislao, potendosi spostare, abbatte il confine tra centro e periferia, addirittura tra città e provincia, dato che il luogo di sosta dell’imbarcazione nel film è Gaggiano, nell’hinterland milanese. Non solo ad Amsterdam, ma anche a Londra, Parigi e Berlino le houseboats sono un modello abitativo alternativo più o meno diffuso (certo, non estraneo a gentrificazione e problemi amministrativi). Il mai morto dibattito sulla convenienza del riaprire o meno tratti dei Navigli a Milano è rivelatorio di una sola cosa: la città ha soppresso nel tempo il suo rapporto con l’acqua, cosa che altre metropoli europee hanno evitato di fare o hanno fatto in maniera meno drastica, potendo oggi sfruttare i canali anche come risorsa nel settore immobiliare, problematico quasi ovunque.

La houseboat di Stanislao attraccata a Gaggiano (da “Un povero ricco”)


Si sarebbe potuto scegliere un qualsiasi caseggiato per ambientare la vita popolare milanese (magari una tipica casa di ringhiera), ma è stata selezionata proprio l’architettura dei BBPR, studio architettonico d’eccellenza del razionalismo e del modernismo italiani, ossia di quei modi “nuovi” di costruire e di fare in generale, che nel nostro Paese si associano tipicamente a Milano. Sullo schermo si vuole far vedere la Milano moderna, perché Milano è sempre destinata a esserlo – nel bene e nel male. L’apice di questo sentimento lo si tocca in “Il ragazzo di campagna”, quando Pozzetto entra per la prima volta nella sua casa di città e il proprietario spiega: “Ingresso, soggiorno-pranzo, letto, cucinotto e water closet, è tutto qui”. Benché venato di amare e critiche risate, c’è un riferimento alto. 12 anni prima dell’uscita del film, nel 1972, al MoMA di New York si era tenuta la mostra “Italy: The New Domestic Landscape” dove Joe Colombo, milanesissimo, aveva esposto la Total Furnishing Unit. Si tratta di un’unità d’arredo compatta e scomponibile a seconda del momento, dell’attività da svolgere e dello stato d’animo; lo stesso vale per il Micro Environment di Ettore Sottsass – milanese d’adozione – ugualmente presentato in quell’occasione. Queste soluzioni rispondevano al sempre crescente bisogno di dinamicità negli anni post-boom economico: ci pare, forse, impensabile che qualcuno desiderasse o quantomeno accettasse di vivere in un parallelepipedo plastico modulare, o forse, abituati a fatiscenti appartamenti assai costosi, metteremmo subito la firma per una casa così visionaria. De gustibus. Fatto sta che poco più di un decennio è bastato per presentare un’idea al MoMA, tempio dell’arte moderna, e vederla, poi, essere presa in giro nella stessa città in cui era di fatto nata.

Joe Colombo, Total Furnishing Unit, 1972


Milano è questo, un fare e disfare infinito: la Fabbrica del Duomo ne rimane l’esempio principe nei modi di dire. Nessuno nel secolo scorso ha saputo raccontarla bene, Milano, come l’ha fatto Pozzetto, benché la regia dei film non fosse sua: ma in questo sta la grandezza dell’attore. L’urbe meneghina è per sua necessità lunatica: è nel negare sé stessa che ha sempre fatto spazio per qualcosa di nuovo. Ma se i problemi posti dal comico negli anni ’80 ci sembrano ancora oggi così attuali, forse la città non è cambiata poi troppo, nel bene e nel male. Pozzetto nei suoi film è in costante mutamento, ma torna sempre a essere sé stesso: in “Un povero ricco” abbandona i propri beni per fare il povero, ma alla fine si trova ricoperto di soldi; in “Da grande”, per magia, diventa adulto e torna bambino; in “Mani di fata” fa la casalinga dopo un licenziamento improvviso e prima di tornare all’ingegneria; in “Il ragazzo di campagna” e “Sono fotogenico”, chiuse le parentesi cittadine, rincasa nel paese d’origine. Quello attuale è un momento in cui tutti rimproverano a Milano d’aver perso la sua “essenza”: forse la città si è solo travestita e aspetta il momento giusto per tornare a essere sé stessa, quando i riflettori saranno puntati da un’altra parte. D’altronde, non è la capitale: non è fatta per primeggiare, glielo abbiamo imposto noi, tutto sommato consci del fatto che – tralasciando i paesini del Sud Tirolo – era il nostro miglior avamposto verso l’Europa quando nessuno ne metteva in dubbio le istituzioni. Se dei meneghini si racconta che sono diffidenti e antipatici (anche Pozzetto?!), non si capisce perché la loro metropoli dovrebbe, al contrario, essere sempre ineccepibile ed esemplare. Magari, e finalmente, è il caso di imparare ad avere pazienza con questa città, come la si ha da sempre con tutte le altre in Italia. Pazienza: una dote rarissima in un mondo che vorrebbe fare una rivoluzione al giorno.

Immagine di copertina: Artemio (Renato Pozzetto) nel suo appartamento milanese (da “Il ragazzo di campagna”)

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