A Gagarine, banlieu in demolizione, la fantasia supera la disperazione

In Cinema

Fanny Liatard e Jérémy Trouilh raccontano la parabola di Cité Gagarine, periferia di Parigi, quartiere all’avanguardia anni 60 demolito anni fa perché fatiscente. Nella reazione delle 370 famiglie al loro sfratto, divise tra sogni di nuovi inizi e rabbia per la perdita di casa e identità, si muove un film che privilegia la speranza. Incarnata dal 16enne Youri che vuol riparare tutto ciò che non va, pensando così di convincere il Comune a fermare lo sgombro. E intanto si costruisce un suo sogno “spaziale”

La Cité Gagarine a Ivry-sur-Seine, periferia sud di Parigi, dove è ambientato il film di Fanny Liatard e Jérémy Trouilh, era un complesso residenziale all’avanguardia quando venne costruita, agli inizi degli anni Sessanta. Tanto che alla cerimonia di inaugurazione venne invitato l’astronauta russo Jurj Gagarin, il primo uomo a volare nello spazio, simbolo perfetto di un’epoca che si voleva felice, proiettata verso il futuro e fiduciosa nelle magnifiche sorti e progressive dell’umanità intera, nonostante i muri che tagliavano l’Europa in due e la guerra fredda combattuta ai quattro angoli del mondo. Oggi è un immenso e fatiscente complesso di edifici abbandonati al degrado, abitati dalla disperazione, lontani anni luce da qualsiasi idea di progresso, e anche solo di dignità. Il comune di Parigi ha deciso così di procedere alla sua demolizione e tutte le 370 famiglie che lo popolano devono lasciare gli appartamenti.

Per molti l’attesa dell’assegnazione di un nuovo alloggio è accompagnata dalla speranza di un inizio, per altri l’idea di lasciare il posto in cui hanno vissuto per tanti anni è motivo di profonda sofferenza. Questo vale in particolare per il sedicenne Youry (Alséni Bathilly), che nella Cité Gagarine ha passato tutta la vita e che lì vuole rimanere, a qualunque costo. Soprattutto perché non ce l’ha un altro posto dove andare, una famiglia con cui andare a vivere: il padre è morto, la madre si è risposata e ha un altro figlio più piccolo cui badare. E poi Youri è convinto che se riuscirà a riparare tutto ciò che si rompe, a rimettere in funzione gli ascensori e sostituire le lampadine nei corridoi, insomma se dimostrerà ai tecnici del Comune che la Cité Gagarine non è solo un mucchio di rovine, forse riuscirà a salvarla.

E così il paese dei balocchi – per il protagonista e i suoi due amici del cuore, Diana (Lyna Khoudri) e Hussam (Jamil McCraven) – diventa un polveroso magazzino ingombro di cavi, interruttori, batterie, materiale elettrico. E mentre gli altri appartamenti cominciano a svuotarsi e gli operai iniziano a sprangare porte e finestre, in attesa di piazzare le cariche esplosive e tirare giù tutto, Youri si barrica in casa e all’insaputa di tutti mette a frutto il suo talento ingegneristico e la sua passione per i viaggi nello spazio per costruirsi un piccolo mondo tutto suo, dove sopravvivere come un astronauta in orbita intorno alla terra, pericolosamente (e magnificamente) in bilico fra realtà e fantasia.

Rientra a pieno titolo nel cosiddetto “cinema di banlieue” questo film diretto con mano leggera e sincera da Fanny Liatard e Jérémy Trouilh, inscrivendo la finzione all’interno di una cornice assolutamente vera. Il film si apre con i materiali d’archivio dell’inaugurazione della Citè Gagarine, con la visita di Gagarin in persona, in un gran sventolio di bandiere e sorrisi, e si chiude con le riprese effettuate sul luogo nel 2019, durante la reale demolizione del complesso di edifici. Un film che racconta la solitudine e la disperazione, il senso di sradicamento e la paura, la quotidiana fatica della vita di periferia, ad appena una manciata di chilometri dagli Champs-Elysées, ma come se in mezzo ci fossero distanze siderali e incolmabili. A differenza di altri film francesi che di recente hanno esplorato il terreno mirabilmente aperto quasi trent’anni fa dall’Odio di Mathieu Kassovitz (I miserabili di Ladj Ly, per esempio) qui a prevalere non è il realismo violento e rabbioso ma piuttosto la speranza, nonostante tutto.

Gagarine diventa così una fiaba urbana, che racconta il senso di appartenenza a un luogo attraverso il filtro del fantastico, proponendo sogni invece che soluzioni, ma regalandoci, paradossalmente, una sorprendente fiducia nel potere dell’immaginazione e nella capacità tutta umana di resistere e creare, inventare e reinventare. Perché poi la vera questione è una sola: riparare o distruggere? Conservare quello che c’è di buono, cercando di rendere il mondo un posto migliore anche solo con un cacciavite in mano, oppure radere al suolo tutto per ricostruire da zero, fin dalle fondamenta, con l’illusione che la prossima volta andrà meglio? Quando in realtà sappiamo bene – troppe rivoluzioni finite male lo hanno dimostrato – che nulla potrà mai andare davvero meglio finché non impareremo a prenderci cura delle
cose e del pianeta. Prendersi cura, la cosa più difficile che c’è.

Gagarine di Fanny Liatard e Jérémy Trouilh, con Alseni Bathily, Lyna Khoudri, Jamil McCraven, Finnegan Oldfield, Farida Rahouadj

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