Keret: un concentrato di vita

In Letteratura

Sette anni di felicità in un libro che parla di padri e figli, guerre, feste, ebraismo. persecuzione, matrimonio, scrittura…

Mi sono fatta convincere a leggere Sette anni di Felicità di Etgar Keret da una bella recensione, trovata non ricordo dove, in cui si diceva che il libro parla di padri e figli, guerre, feste, ebraismo e persecuzione, matrimonio, scrittura… insomma, tutto quello che ci si aspetta di trovare nel resoconto di sette anni di vita di uno scrittore israeliano di successo.

Sette anni di felicità in effetti è un’opera autobiografica: sette parti (una per anno) e trentasei racconti brevi, ognuno dei quali racconta un episodio della vita a Tel Aviv dell’autore, dalla nascita del figlio Lev alla morte del padre. Una vita divisa – come si intuisce già da queste prime righe – tra famiglia, attentati, impegni, tassisti nevrotici, festival della letteratura, bombardamenti… Una vita di piccoli aneddoti, più o meno strazianti o divertenti, per la quale non è difficile provare simpatia.

Il problema, semmai, è orientarcisi, almeno all’inizio: i racconti si accumulano, apparentemente senza una logica, e si fatica a capire dove vadano a parare. Poi, pian piano, si delineano alcuni filoni, di sorprendenti coerenza e lucidità: c’è quello legato a Lev, alla relazione padre-figlio che cresce ed evolve negli anni; quello di Tel Aviv, il dramma e le contraddizioni di una città che da decenni convive con i bombardamenti, e che tra le macerie costruisce la sua improbabile normalità; quello della scrittura, sentita come vocazione irrinunciabile, ma anche della vita consumata tra festival, reading in giro per il mondo e dediche agli sconosciuti; quello della quotidianità con la moglie; e quello del padre, infine: le mille storie della sua esistenza sopra le righe, della malattia affrontata con coraggio, e della morte, dolorosa, senz’altro, ma anche piena di significato per quelli che restano.

È sorprendente il modo in cui tutti questi aspetti riescano a stare insieme e a dare coerenza a un’opera dalla struttura così volutamente frammentaria. Ma, a pensarci, forse il valore dell’opera risiede esattamente nell’onestà con cui l’autore la costruisce e la racconta. È proprio questo procedere per accumulo, senza apparentemente badare all’insieme che si va delineando, che ricalca il susseguirsi delle nostre giornate, a dare credibilità e spessore ai racconti di Keret.

E, proprio perché credibile, trovo particolarmente azzeccato il titolo (in originale The seven good years – a memory), che in qualche modo stila un bilancio della fetta di vita che racconta; un bilancio che rimane positivo, a dispetto dei bombardamenti e dei lutti, dell’Olocausto e della precarietà. Nel presentare le sue vicende, l’autore riesce infatti a mantenere uno sguardo – e un tono – lieve, complice anche l’autoironia del proverbiale umorismo ebraico, palpabile sin dai titoli, spesso geniali, dei racconti. Non quindi il piagnisteo dell’esponente di un popolo perseguitato, costretto a vivere in una città attanagliata dalla guerra, ma il resoconto – intelligente e spesso divertito – di uno scrittore innamorato della vita.

Sette anni di felicità, Etgar Keret (Feltrinelli, 2015, 164 pp, 14€)

Immagine: Dr Bansky di Thomas Hawk

(Visited 1 times, 1 visits today)