Se l’archeologo (Salvatore Settis) incontra la stilista (Miuccia Prada)

In Arte

Salvatore Settis, Rem Koolhaas, Miuccia Prada. Una squadra bizzarra per una mostra esemplare che mette in discussione le categorie di originale e copia

Prendete uno dei più autorevoli archeologi viventi, Salvatore Settis, e un archistar postmodernista di fama mondiale come Rem Koolhaas. Prendete gli spazi appena inaugurati della nuova Fondazione Prada ricavati in una ex-distilleria affacciata sullo scalo ferroviario di Porta Romana, ad opera dello studio OMA dello stesso Koolhaas. Prendete una pattuglia di statue antiche, greche e romane, originali e copie, in marmo, bronzo e terracotta. Il risultato è Serial Classic, la mostra bellissima in scena nel nuovo spazio della Fondazione di Miuccia Prada.

Copie romane del Satiro versante attribuito a Prassitele (secondo quarto del IV secolo a.c.)
Allestimento della mostra presso Fondazione Prada. Foto Attilio Maranzano. Courtesy Fondazione Prada

La sfida era ambiziosa: una mostra di scultura classica chiamata a inaugurare uno spazio dedicato prevalentemente all’arte contemporanea. Di più: raccontare l’arte classica con sensibilità e allestimento tutti contemporanei, senza però mortificare i marmi antichi in accostamenti banali e ammiccanti. Tanto per intenderci: niente citazioni di Benjamin messe in bocca a un incolpevole Apollo di Kassel; nessuna serigrafia di Marylin fianco a fianco con le Afroditi accovacciate di Doidalsas. L’operazione è più complessa: si tratta di sfruttare il gusto e le abitudini percettive di oggi per costruire una comprensione più profonda dell’arte antica. Di allestire un’esposizione accattivante senza rinunciare a un ineccepibile rigore filologico.

Il tema prescelto (poteva essere diversamente, date le premesse?) è la serialità nell’arte classica. In ballo c’è la necessità di scardinare la mitologia dell’originalità e dell’autorialità, delle statue antiche come frutti irripetibili dell’ispirazione di un artefice quasi divino, modelli eterni di perfezione. E non è poco.

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Allestimento della mostra presso Fondazione Prada. Foto Attilio Maranzano. Courtesy Fondazione Prada

Serialità allora, declinata in ogni suo aspetto: serialità delle copie romane, ovviamente, ma anche serialità della produzione greca come nel caso dei busti in terracotta di Medma, prodotti a matrice in una cittadina della Calabria tirrenica – quasi un flashback sull’arte greca arcaica – o nella vicenda, intricata ma narrata magistralmente, della cosiddetta Penelope, una scultura prodotta nell’Atene di Fidia in almeno due esemplari identici. O ancora: gusto per la serialità dei collezionisti romani che si procuravano copie in stock per arredare ambienti e giardini: vengono tutte dalla villa dell’imperatore Domiziano a Castel Gandolfo, per esempio, quattro copie del Satiro versante di Prassitele. Chissà come dovevano essere allestite; magari in perfetta simmetria, come in un film di Wes Anderson.

Basta la prima sezione per far capire il tono della mostra. Si parte da un’assenza: della sterminata produzione greca di sculture in bronzo (dovevano essere da mille a tremila, solo a Olimpia), non resta quasi nulla: circa un centinaio di statue, integre o frammentarie, recuperate per lo più dal mare negli ultimi centovent’anni. Il resto è andato fuso nel Medio Evo quando il nudo metallo valeva più di qualsiasi opera d’arte. Ecco allora una vetrina di frammenti bronzei, pezzi minuscoli di corpi metallici sopravvissuti ai secoli e disposti sul tavolo con la freddezza vagamente disturbante dell’anatomopatologo: alluci, palpebre, ciglia, riccioli, orecchie. Relitti di organismi bronzei. La mostra è già tutta in quella vetrina: chiarezza concettuale, gusto pop, intensità poetica.

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Allestimento della mostra presso Fondazione Prada. Foto Attilio Maranzano. Courtesy Fondazione Prada

Da lì in poi è una successione di sezioni tematiche disposte liberamente nell’open space dalle pareti di vetro che accoglie la mostra. Nessuna paratia; solo gradoni di acrilico variano i livelli del pavimento in una suggestiva orografia artificiale che suggerisce gerarchie e varia continuamente le prospettive. I visitatori sono spinti a girare intorno alle statue, ad arrampicarsi sui gradoni per esplorarle da diverse angolature (e sperimentare utilizzi inusitati e acrobatici dell’immancabile selfie-stick). Rinunciare al piedistallo «dispositivo base di ogni esposizione tradizionale di scultura classica» è una delle parole d’ordine che accolgono il visitatore: può sembrare una velleità pseudo-futurista («morte al piedistallo!») ma non lo è affatto. Si tratta di annullare la deferenza accademica e imbalsamata, ma anche della gente comune, verso l’unicum (o sedicente tale) della statua antica, per restituirla come oggetto vivo da esperire e indagare.

Per ciascuna sezione, una domanda presiede agli accostamenti e trova risposta nei materiali esplicativi predisposti dai curatori (plauso anche per la chiarezza grafica di pannelli e libretto). Come si ricostruisce l’aspetto di un originale greco incrociando fonti e riproduzioni romane? Oppure: come si facevano le copie nell’antichità classica? Ma anche «L’uso archeologico dei calchi in gesso»: sulla carta, non proprio un argomento da best seller. Eppure, le pratiche dell’archeologia filologica diventano materia di una trattazione sintetica, chiara e appassionante. Gli elementi eleganti e essenziali dell’allestimento supportano con straordinaria efficacia la narrazione: una lastra in plexiglass può bastare per suggerire il filtro della distanza storica, un basamento vuoto è in grado di evocare l’assenza di un originale perduto.

Inaugurare la nuova Fondazione Prada con una mostra di statuaria greco-romana era una sfida rischiosa. Vinta trionfalmente.

“Serial classic”, Fondazione Prada, fino al 24 ottobre 2015

Foto: Allestimento della mostra presso Fondazione Prada. Foto Attilio Maranzano. Courtesy Fondazione Prada

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