Il vento, il mare e la metafora dell’esistenza

In Teatro

Fino a fine mese all’Elfo un lavoro poetico e articolato: “io sono il vento” di Jon Fosse rappresenta il confine tra la vita e la morte come un viaggio in un ignoto d’acqua. Due ottimi Bonadei e Di Genio, spericolati , gli offrono tutti se stessi, e incantano.

Il confine tra vita e morte è una soglia. Pare solida come il bianco del marmo ma è fluida e imprevedibile come una notte di mare per chi non ha mai navigato. E così in effetti la immagina il premio Nobel Jon Fosse in uno dei suoi lavori più immaginifici. Non c’è palco ma un rettangolo di acqua bianca rotta da due corpi che vi si abbandonano e vi combattono, solo nella narrazione per tramite di una nave a vela. Sulla scena del Teatro Elfo Puccini fino al 30 maggio, invece, Marco Bonadei e Angelo Di Genio hanno invece soltanto corpi, parzialmente protetti da cerate nere, e voci spezzate, che si rincorrono e si sfidano in un altrove che insieme li separa e li fa uno: come la vita: si parlano, infatti, da un oltre: qualcosa è già accaduto, il confine è stato già superato: chi appare presente in realtà è già passato, perduto.

E solo nella solitudine del mare resta abbastanza spazio e abbastanza silenzio per domandarsi perché. E per aver paura, di una natura che Fosse svela ancestrale e nemica, come il mare nel buio, come il sublime del romanticismo che qui perde la distanza necessaria alla fascinazione.  La stessa angoscia dell’incontro con se stessi, possibile soltanto nel silenzio e nella distanza di un oceano senza appigli. O negli occhi dell’altro?
Sono due o sono uno, gli uomini che affrontano il mare? Sono la paura e l’incoscienza, la disperazione e il controllo, il timore o l’abbandono? O l’uno e l’altro insieme, mentre chi conosce il mare cerca la morte e chi lo teme non sa trattenere?

È una pièce che ha la forza di un mito antico, fondativo, dei corpi che si immergono nelle acque del Lete, i flutti della dimenticanza, dentro cui tenere il fiato per lasciare andare una vita troppo pesante, a cui affidarsi per scoprire una leggerezza impossibile, farsi mare, diventare vento.

Per dire l’indicibile, Fosse sceglie la separazione tra ciò che si dice e ciò che si incarna. Passi di verità a tratti poetici che si frammentano in suono, grida, risa scomposte. E in silenzi che si dilatano e restringono, misurati nel tempo di ciascuno sotto una pioggia di microfoni neri che fanno immaginare echi prima di aver bisogno di crearli. Corpi – il cui racconto è disegnato da Chiara Ameglio, che si accostano e si perdono, a ondate, si sfidano, e sfidano lo spettatore a condividere la loro sorte, negli schizzi di quell’acqua misterica che invadono il modo fuori dalla scena, come se un mondo ctonio ne lambisse un altro. Come quella piccola quotidianità che le parole dei due uomini riproducono senza agirla: il cibo, le bevute, sono cose di esistenza minuta. Quel che i due protagonisti attraversano, invece, ha a che fare con gli assoluti, con il senso dell’esistere, e le domande più profonde: dove andiamo, dove siamo in grado di arrivare? Mentre cade un inevitabile silenzio su un finale che non può essere scritto, la violenza della luce di un faro o di una torcia taglia l’acqua e illude di illuminare risposte impossibili.

C’è, vistosamente, Beckett, dentro la penna di Fosse. Ma c’è, in più, la sfida di due interpreti che si mettono in gioco integralmente, proprio come il mare – anche quando è solo metaforizzato – pretende.
Un esercizio affascinante e complesso, che si lascia ammirare e ammalia per travolgere, disorientare e negare le risposte. Non resta che lasciarsi andare al lavoro di due interpreti di talento, di una regia – firmata ancora Bonadei – coraggiosa nel suo giocare col limite tra realismo ed astrazione.

Forse la vita potrebbe essere questo: stretta come  una vasca con pochi centimetri d’acqua dentro cui restare fino alla fine, ma dentro cui si può affogare, perdersi. O forse ritrovarsi.
Un esempio perfetto di teatro contemporaneo quando funziona, quando manipola i significanti non per svuotarli ma per moltiplicare i significati e le letture. E fare emergere, come dal mare, incubi e tesori.

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