Il lavoro di vivere

In Teatro

Come annegare ogni sera in una pozzanghera: Andrée Shammah ci fa conoscere uno straordinario autore israeliano, curiosando nella banalità di un ménage coniugale.

Si chiama The labor of life, ma al Franco Parenti il titolo del testo di Hanoch Levin – letteralmente: La fatica della vita – attenua la propria asprezza per diventare, nella traduzione di Claudia Della Seta e Andrée Ruth Shammah  (anche regista dello spettacolo), Il lavoro di vivere. Un cambiamento da poco: in fondo già nella scena iniziale in cui vediamo Yona Papukh, sveglio e irrequieto, condividere il talamo con la sognante moglie Leviva, si indovinano tanto la sfibrante fatica quanto l’ostinata operosità che una coppia di lungo corso è chiamata a impiegare nel tentativo di arginare il logorio della propria quotidianità. Un’esistenza tranquilla, si direbbe, perigliosa quanto una pozzanghera, che tuttavia rischierà di esondare nell’arco di una sola notte.

Come nel teatro di Pinter dove la minaccia si annida soprattutto nella normalità, lo sgocciolio di un lavandino diventa, oltre che un insopportabile memento mori, l’avvisaglia della piena: Yonah rompe la routine, e buttando (letteralmente) la moglie giù dal letto, richiamandola ‘dal guscio del sonno’ in cui si è rifugiata, dà il via a una battaglia senza esclusione di colpi, al resoconto di una vita di ordinaria insoddisfazione.

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La storia che l’opera di Levin ci racconta è quella di una presa di coscienza: l’ammissione della propria normalità passa attraverso il confronto con l’altro, il partner, colui che è così vicino da diventare specchio di noi stessi. Un ruolo ingrato, a ben vedere, che si trasforma facilmente in quello di responsabile primo delle proprie delusioni, capro espiatorio d’elezione di malcontenti e insuccessi. La frustrazione che Yona riversa su Leviva, condita di una buona dose di maschilismo, è resa ancora più grottesca dalla cecità delle sue argomentazioni: perché se la consorte è avvizzita, scaduta, come dice lui, fino ad esser diventata, giorno dopo giorno, un ‘culo’ privo di fascino che gli ha tarpato le ali, il maritino, dal canto suo, non ha certo lo spessore e l’intraprendenza che crede.

La sua profondità si misura quasi esclusivamente nella capacità di ragionare di aringhe e il suo coraggio nel mandare la consorte a vedere chi bussa alla porta a tarda notte. Ed è proprio in Gunkel, l’amico di famiglia scapolo, che irrompe nel mezzo della discussione, quando i ruoli di carnefice e vittima hanno già fatto in tempo ad invertirsi più volte, che si manifesta l’epifania. È attraverso il desiderio dell’ospite inatteso di una ‘calda intimità domestica’, nella sua importuna libido di socialità, nella sua disperata solitudine che Yona Papukh capisce di essere ‘una perla falsa’: la mancata realizzazione personale non è questione di vincoli familiari ma una condizione connaturata alla propria ordinarietà. Un Gunkel celibe è infelice quanto un Papukh sposato.

Andrée Ruth Shammah incontra Carlo Cecchi e l’esito è felice: l’intento (quasi una poetica che la regista milanese ha manifestato in diverse circostanze) di mettere il proprio lavoro al servizio del testo e degli attori trova qui una delle sue realizzazioni più fortunate. E non solo perché Cecchi è Cecchi e riesce a calarsi con estrema naturalezza e un’ammaliante ironia nei panni del ruvido Yona, ma anche perché Fulvia Carotenuto e Massimo Loreto sono valori aggiunti di gran pregio. Nell’atmosfera raccolta della sala 3 del Parenti, resa ancora più intima dai giochi di luce di Gigi Saccomandi, il pubblico non può far altro che spiare divertito, attraverso le veneziane che lo separano dalla scena, l’interno notte di Levin e interrogarsi con la disperazione di Leviva sull’importanza della condivisione. È infatti nella struggente necessità di avere un alleato contro la solitudine, un compagno, un collaboratore di vita, sia pure ‘qualcuno contro cui abbaiare’, il solo senso di questa fatica di vivere.

Foto di Fabio Artese

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