Il folle genio di Ligabue e il senso dell’arte al cinema

In Weekend

Giorgio Diritti con “Volevo nascondermi” ridà fiato a quel filone del biopic che parte dalla domanda, quasi sempre senza risposta, sull’origine del talento creativo. Per poi interrogarsi sul legame (casuale? necessario?) tra disturbo mentale e maestria pittorica. Tema perfettamente adatto ad Antonio Ligabue, l’artista “pazzo” interpretato da Elio Germano, che ha affrontato una vera ricerca dell’anima del personaggio. Quadri e musei affollano del resto l’immaginario (e le sale) del cinema, un’esperienza immersiva che solo lo scorso anno ha avuto in Italia due milioni di spettatori

Da Botticelli a Leonardo, da Michelangelo a Gauguin passando per Frida Kahlo, Caravaggio e Degas. E abbiamo scelto dei nomi quasi a caso, perché l’elenco ormai è lunghissimo. Inoltre, per chi non ha voglia di scegliere, c’è la possibilità di visitare, tramite docu-film, comodamente seduti nella poltroncina del cinema più vicino a casa, un intero museo, dal Prado all’Ermitage, senza prendersi il disturbo di arrivare fino a Madrid o a San Pietroburgo. La grande arte vista al cinema sembra proprio la moda del momento, e il successo in Italia delle proiezioni-evento della Nexo Digital lo dimostra senza ombra di dubbio. Solo guardando al 2019 le cifre parlano chiaro: due milioni di biglietti venduti.

Vien da chiedersi da dove nasca tutto questo interesse, non tanto per l’arte in sé, quanto per questa particolare modalità di fruizione del prodotto artistico. Non più attraverso il “tradizionale” esercizio (individuale) di visione dell’opera originale, ma attraverso la visione (collettiva) di un’immagine proiettata di quell’opera d’arte, quindi di una copia, di una riproduzione. Certo, si tratta spesso di una riproduzione molto particolare, a dir poco spettacolare. La chiamano esperienza immersiva, qualcuno parla addirittura di “realtà aumentata”. È tutto virtuale, ma sembra valere ben più del reale, grazie all’uso di tecnologie ultrasofisticate, dal 3D al 4K, che ci permettono di vedere quel che dal vivo non avremmo mai la possibilità di vedere. Insomma, non solo si elimina la fatica del viaggio – andare fino a Roma per vedere i musei Vaticani, per esempio, con tutto lo stress dello spostamento e gli inevitabili costi, e le code – ma si mette a disposizione del singolo spettatore un’esperienza di visione “assoluta”, ravvicinata e perfetta, praticamente priva di difetti.

Davanti al quadro non c’è il triplo vetro a protezione e nemmeno la testa di un altro visitatore. E nessun addetto alla sicurezza che ci sgrida se tentiamo di avvicinarci troppo all’opera esposta. Certo, viene meno la mia libertà di vedere prima un quadro e poi l’altro, di girare per la sala in senso orario o antiorario, come mi aggrada. Ma cosa importa? Se in cambio ho la vertiginosa possibilità di “entrare” dentro il quadro, osservando i dettagli di ogni singola pennellata, e ho l’impressione di toccarlo, forse persino di annusarlo. Con la tecnologia della motion graphic i personaggi di un dipinto possono poi addirittura prendere vita, muoversi, uscire dalla cornice. Lo spettatore può così ritrovarsi immerso in una tela di Canaletto, tra le brulicanti calli di Venezia, oppure sperimentare la sensazione di galleggiare tra le ninfee del giardino di Monet.

Tutt’altra cosa rispetto al classico biopic dedicato alla vita e alle opere dell’artista di turno, colto di solito nel momento preciso in cui genio e follia dimostrano di andare inesorabilmente a braccetto. Un genere di cinema che conta a sua volta innumerevoli titoli, spesso interessanti anche perché ai grandi artisti quasi sempre hanno prestato volto e voce grandi attori. Da Charlton Heston-Michelangelo a Donald Sutherland-Gauguin, da Anthony Hopkins-Picasso a John Malkovich-Klimt, passando per Ed Harris-Pollock, Salma Hayek-Frida Kahlo, Andy Garcia-Modigliani. Senza dimenticare il pittore più cinematografico di tutti: Vincent Van Gogh, protagonista di una quantità impressionante di film e documentari, dal primo firmato nel 1948 da Alain Resnais all’ultimo diretto da Julian Schnabel e interpretato da Willem Dafoe. Con in mezzo i volti di Kirk Douglas, Tim Roth, Martin Scorsese e Tchéky Karyo, solo per citare i più famosi.

Il risultato dell’interesse costante dimostrato dal cinema nei riguardi dell’arte ha prodotto una massa enorme di immagini e parole, e ogni volta sembra che l’obiettivo di fondo sia un po’ sempre lo stesso. Rispondere alla domanda: “Da dove viene il genio artistico?” Una domanda impossibile, un tentativo di spiegare qualcosa che con ogni probabilità è semplicemente inspiegabile. Forse, anche se non è facile, bisognerebbe davvero rassegnarsi – una volta per tutte – all’idea che non c’è niente da capire. Sembra proprio partire da una constatazione di questo tipo Giorgio Diritti, che dedica il suo ultimo film, Volevo nascondermi, al pittore Antonio Ligabue. E non sembra minimamente mosso dal desiderio di spiegare, e forse nemmeno di capire. Diritti si limita a mostrare, senza appiccicare a ogni immagine una didascalia esplicativa. Senza giudicare. Si limita a raccontare – fin dalle prime immagini di un occhio impaurito che fa capolino da sotto una coperta nera – il destino di un uomo fragile, gettato nel mondo senza protezione alcuna, condannato a una perenne fame di amore, perennemente destinata a rimanere delusa.

Andando avanti e indietro nel tempo, e procedendo per ampie ellissi, davanti ai nostri occhi scorrono le immagini dell’infanzia disgraziata di un bambino maltrattato, la vita grama di un ragazzo deportato in un luogo di cui nemmeno conosce la lingua (nato a Zurigo da genitori italiani, Ligabue cresce in una famiglia adottiva di lingua tedesca, ma nel 1919 viene espulso dalla Svizzera e portato a Gualtieri, nella bassa reggiana), le vicissitudini di un uomo fragile e solitario che trova nell’espressione artistica un riscatto alle tante sofferenze patite, ma che non sarà mai capace di integrarsi davvero in quel mondo che pure, da un certo momento in poi, sembra volerlo accogliere con tutti gli onori. Anche all’apice del successo, infatti, Antonio Ligabue non ci riesce proprio a sentirsi a casa, a far pace coi tanti demoni che gli si agitano nella testa.

Giorgio Diritti – con il fondamentale aiuto di Elio Germano, che nei panni di Ligabue sembra voler andare alla ricerca dell’anima stessa del suo personaggio – sceglie la semplicità di un racconto essenziale, sincero e potente, e non viene a patti con le esigenze della distribuzione più pigra, decidendo anzi di far parlare tutti i personaggi in dialetto. È una scelta radicale e giusta, per salvare la verità di una messa in scena che punta all’autenticità anche nel sottolineare con forza il legame con un determinato territorio, con un mondo rurale ritratto con precisione e affetto, evitando accuratamente la facile nostalgia. E alla fine del film non abbiamo capito più di prima in quale piega dell’umano si nasconda il germe del talento artistico, non sappiamo se per essere grandi pittori si debba necessariamente essere folli, e neppure se l’arte, quella vera, conduca inevitabilmente alla pazzia.

Per due ore però ci siamo trovati immersi nella vita disperata ma colma di speranza di un uomo nato male e cresciuto peggio, eppure capace di colorare di senso il mondo. Un uomo segnato da una bruttezza patologica, senza redenzione, eppure in grado di aggiungere bellezza al mondo. E non c’è niente da capire.

Volevo nascondermi di Giorgio Diritti, con Elio Germano, Oliver Ewy, Leonardo Carrozzo, Pietro Traldi, Orietta Notari

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