L’ultimo Wes Anderson, surreale e teatrale, raccontato a due voci

In Cinema

“Asteroid City”, film n. 11 del più europeo degli autori americani è un “castello dei destini incrociati” ambientato nel deserto del Nevada, anno 1955. Dove non regna la logica ma un’immaginazione sfrenata. Popolato dal consueto supercast (Hanks, Johansson, Brody, Dillon, Swinton, Robbie, Carell, Dafoe Schwartzmann), è una delle sue opere più scanzonate. Abbina tematiche come isolamento e lutto, genio scientifico e capacità di sognare. In un gioco di trasformismi e contaminazioni capace di mescolare e sovrapporre piani temporali, specchi e riflessi. Tutto in palcoscenico

Nei giorni in cui a Milano si celebrava l’ennesima settimana dedicata all’alta moda, non poteva certo mancare il ritorno nelle sale del più fashion tra i registi del panorama contemporaneo. Firma di punta del marchio Prada, tra esilaranti cortometraggi pubblicitari e arredamento d’interni negli spazi della Fondazione, ogni creazione del visionario Wes Anderson è soprattutto (o soltanto, a seconda che lo si ami o si odi) una gioia per gli occhi. Non fa dunque eccezione Asteroid City, nuovo film cartolina del cineasta texano, regolato per l’occasione su palette di rosa, azzurro e giallo arancio. Ad accompagnarlo, come in ogni suo viaggio, la consueta sfilata di celebrità del grande schermo, questa volta quasi tutta a stelle e strisce per esigenze di copione. La lista, capitanata dalla vecchia conoscenza Jason Schwartzman (con Anderson fin dall’esordio in Rushmore del 1998), è come al solito impressionante: da Tom Hanks a Scarlett Johansson, da Edward Norton a Steve Carell, da Brian Cranston a Jeffrey Wright, da Adrien Brody a Matt Dillon, da Margot Robbie a Willem Dafoe e, ovviamente, la solita Tilda Swinton, attrice feticcio del regista per le sue abilità camaleontiche.

D’altro canto, il primo a divertirsi con trasformismi e contaminazioni è proprio lui, il più europeo tra gli autori statunitensi di oggi: se il precedente The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun era soprattutto un omaggio al mondo della carta stampata dal reportage al fumetto, malgrado il titolo dal sound “fantascientifico” questa nuova fatica strizza invece esplicitamente l’occhio alla messa in scena teatrale. La trovata più riuscita nell’ora e mezza di proiezione (una rarità, visti gli standard hollywoodiani di questi tempi) è proprio il costante gioco di rimbalzo tra il palcoscenico e un racconto filmico appositamente bidimensionale, in scenografie e inquadrature, ma anche per recitazione ed espressività dei suoi interpreti.

Il maggior pregio o il peggior difetto di Asteroid City, infatti, è che si tratta di un Wes Anderson all’ennesima potenza, un vademecum della sua poetica, dal ritmo compassato e dall’inquadratura statica, in tableaux vivants osservati attraverso filtri vintage patinati. Tanto la cittadina immaginaria del titolo quanto gli improbabili personaggi che la popolano sembrano usciti dalle vecchie stampe sbiadite dal sole di un diner americano anni ’50, tra milkshakes vaniglia e fragola e juke box caricati soltanto a hit country malinconiche. E poi c’è il vecchio trucco della fantascienza d’epoca, ovvero il racconto dell’umanità intera, dei suoi pregi e difetti, attraverso l’attesa e il mistero nell’incontro con l’altro, l’essere proveniente da mondi diversi ma in realtà fin troppo simile a noi tutti.

Per gli estimatori abituali del genere, comunque, non mancheranno momenti di grande delicatezza e trovate esilaranti: anzi, superato lo scoglio iniziale della lentezza, l’undicesimo lungometraggio nella relativamente breve ma intensa filmografia di Anderson è per certi versi una delle sue opere più surreali e scanzonate, al punto che forse un po’ più di brio (com’era per esempio in Grand Budapest Hotel) non avrebbe affatto guastato, ma tant’è. Sarebbe stato probabilmente assurdo, se non ingiusto, aspettarsi qualcosa di diverso, vista la cifra stilistica unica nel suo genere esibita fin qui. A maggior ragione se è vero che, come ha raccontato lo stesso regista, buona parte della trama del film è stata concepita in pieno lockdown globale da pandemia di Covid-19, affrontando dunque tematiche come isolamento e lutto, ma anche genio scientifico e capacità di sognare. Perché, come ripete il misterioso mantra che accompagnerà lo spettatore ai titoli di coda attraverso l’inconfondibile voce di Jarvis Cocker, “Non puoi svegliarti se prima non ti addormenti, quindi vivi i tuoi sogni e vivili a fondo”. Stefano Benedetti

UNA STORIA AL CUBO VENATA DI BRILLANTE FOLLIA

Deserto del Nevada, 1955. In una cittadina costruita intorno all’enorme cratere provocato dalla caduta di un asteroide si intrecciano i destini dei protagonisti di Asteroid City, il nuovo film di Wes Anderson. Praticamente un intero film costruito intorno a un buco. Una voragine scavata nella terra brulla del deserto, tra i rovi e i sassi, e troppe ombre. Un girare a vuoto, un rincorrersi, un infinito vagare alla spasmodica e magnifica ricerca di un’isola che forse non c’è; e di un senso che di sicuro è già andato smarrito. Ma non importa, perché, come scriveva Machado, “viandante, non c’è cammino, il cammino si fa andando”. Anderson, giunto al suo undicesimo film, sembra avere in mente proprio queste parole, questa immagine di profonda e indeterminata libertà, nel momento in cui sceglie di mettere in scena il suo “castello dei destini incrociati” senza curarsi molto della logica e forse nemmeno del buon senso, e coltivando soltanto, dalla prima all’ultima scena, surreale follia e sfrenata immaginazione.

Vediamo così danzare davanti ai nostri occhi incantati una mirabolante quantità di personaggi: dal fotografo di guerra (Jason Schwarzmann) che piange la moglie morta ma non ha il coraggio di comunicare la notizia ai suoi figli, all’attrice tormentata e insicura (Scarlett Johansson), che lontano dallo sguardo degli altri si spegne come una bambola meccanica, dal nonno malinconico (Tom Hanks) a una schiera di scienziati e militari che non sanno più che pesci pigliare. L’occasione è una tranquilla convention di giovanissimi ricercatori radunati ad Asteroid City per presentare le loro invenzioni, ma le cose prendono una piega inaspettata nel momento in cui dal cielo cade un extraterrestre. Interviene l’esercito degli Stati Uniti e l’intera area viene ermeticamente chiusa, con esiti che potrebbero essere drammatici, ma finiscono con l’essere solo bizzarri e spesso comici.

Una storia che non è una storia, quella raccontata in Asteroid City, messa in scena come una storia al quadrato, o forse dovremmo dire al cubo. Perché quella che vediamo è la pièce teatrale raccontata dal narratore Bryan Cranston e scritta dall’autore Edward Norton, ma al tempo stesso è l’adattamento televisivo realizzato dal regista Adrien Brody. E l’autore/regista/narratore Wes Anderson? Si diverte come un matto a mescolare e sovrapporre piani temporali, specchi e riflessi, il palcoscenico con il dietro le quinte, il bianco e nero con i colori, il vuoto con il troppo pieno. Non sa dove andare a parare, è evidente, ma non importa. E in tre atti, un prologo e un epilogo ci porta a spasso nel deserto e forse ci mena anche un po’ per il naso, ma ci regala un teatrino delle meraviglie di sublime, maniacale e straniante perfezione.

La lista completa di tutte le attrici e gli attori coinvolti nell’impresa è praticamente impossibile da ricordare, ma alcune performance, a volte brevissime – Steve Carell e la sua stazione di servizio o l’alieno Jeff Goldblum – valgono da sole il prezzo del biglietto. Marina Visentin

Asteroid City di Wes Anderson, con Jason Schwartzman, Tom Hanks, Scarlett Johansson, Edward Norton, Steve Carell, Brian Cranston, Jeffrey Wright, Adrien Brody, Matt Dillon, Margot Robbie, Willem Dafoe, Tilda Swinton, Jeff Goldblum

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