Club to Club, il cuore della musica elettronica

In Musica

In sedici anni di attività, il Club to Club si è affermato come il più longevo e qualitativamente più interessante festival di musica elettronica della penisola

Curriculum vitae di un festival

Nome: Club to Club
Anno di nascita: 2000
Indirizzi: Reggia di Venaria, Conservatorio di Musica Giuseppe Verdi, Astoria, Palazzo dal Pozzo della Cisterna, Lingotto.

Formazione: “Alle sue origini il C2C era una realtà intrinsecamente molto legata alla città, ed era il festival di Torino, mentre negli ultimi anni, a partire dal 2010, ha raggiunto una dimensione nazionale e internazionale”. “Tra gli artisti che in Italia hanno suonato per la prima volta con noi, e che poi hanno avuto una traiettoria spettacolare, sicuramente mi viene in mente Jamie XX, il suo primo dj set lo fece a C2C nel 2010, ed ora è diventato una star mondiale. Così come Nicolas Jaar, o lo stesso James Blake che quando suonò al C2C del 2011 era ancora un artista semi-sconosciuto.” (Sergio Ricciardone, direttore artistico del Festival)

Esperienza professionale: Il Club to Club è il miglior festival di musica elettronica presente in Italia. Il Club to Club è il Sonar italiano. Torino è la capitale della musica underground.

 

Quale delle tre affermazioni è sicuramente vera?

Sicuramente la prima: il C2C, in sedici anni di attività, si è affermato come il più longevo e qualitativamente più interessante festival di musica elettronica della penisola. Il Club to Club non è il Sonar italiano, per quanto la location fieristica notturna e la qualità possano assimilarli. Club to Club mantiene la sua unicità e ne acquisisce via via altre. Quanto all’underground, c’è da dire che in Italia la controcultura si distribuisce in diverse città che alternano il luogo di capitale non tanto per il fermento, quanto per la maggior capacità di resistenza agli ordinamenti comunali che colpiscono gli spazi dove l’underground può essere fruito.

La sedicesima edizione del Festival si è estesa per ben cinque giorni- dal 3 al 7 novembre- comprendendo una serie di location diverse per tipologia e per artista pronto a esibirsi. Gli stessi giorni del festival, poi, le due fiere di arte contemporanea Artissima e Paratissima – rispettivamente rassegna ufficiale e sua compagna off – hanno letteralmente creato l’imbarazzo della scelta fra le attività culturali (e alcoliche) cittadine. Purtroppo non ho potuto essere presente alle due prime serate del festival – aperto, tra gli altri, al Conservatorio da Arto Lindsay, leggendario chitarrista no wave influenzato dal free jazz e dalla bossa nova e da Tim Hecker al Lingotto – il cui live, che avevo ascoltato a Roma alla fine di settembre, è un’esperienza immersiva di noise ambientale che non lascia indifferenti.

Venerdì mattina, puntuale, da Roma Tiburtina ho preso un bla bla car per Torino, perché sette ore di macchina quest’esperienza le vale tutte. Il mio racconto procederà per colpi di fulmine e pietre miliari.

Le ultime due serate, si sa, sono le più ricche di aspettativa. Quest’anno il programma fra gli altri prevedeva una leggenda che passa da anni di bocca in bocca fra tutti gli appassionati di elettronica e ambient music: gli Autechre. Unica esibizione italiana dell’anno per il duo inglese, che alle 4.00 del mattino, dopo 3 ore di dj set del maestro Laurent Garnier – forse un po’ troppe anche per un principe del clubbing – lasciano nell’oscurità il salone principale del Lingotto per un’ora di live, che si trova trascinato in un’ architettura musicale di difficile comprensione per i non aficionados. Il live fra synth e elementi hip hop non ha purtroppo decollato, pur nella sua bellezza, fino a raggiungere il climax che ci si aspettava.

Forse fra le più memorabili del festival, l’esibizione degli Swans – prima pietra miliare non appartenente al mondo dell’elettronica-: 20 anni di carriera, noise e chitarre elettriche rozzamente melodiche, ci trascinano per un’ora buona fino a Powell, non una rivelazione di certo, ma fra quelli più di “nicchia” per il pubblico di massa del weekend. I suoni di Powell accontentano i palati amanti dei suoni più particolari, che oscillano fra la techno industrial e il post punk.

Chet Faker, barbutissimo hipster che canta indie-elettronica con voce lamentosa, ha aperto le danze sotto le mentite spoglie del moniker Nick Murphy presentando una selezione di tutto rispetto, orientata sulla tech-house, alternata a qualche suo pezzo, estremamente godibile.

Peccato per Andy Stott, uno degli artisti che preferisco, a cui è stata affidato il live di chiusura della serata: pochi ad esempio i pezzi da Luxury Problems, suo album capolavoro, con il risultato che l’ora dalle 5 alle 6 del mattino è passata con fatica.

Sabato 6 arrivo in tempo per Junun, l’insolito ensemble composto da Jonny Greenwood, chitarrista dei Radiohead, dal compositore israeliano Shye Ben Tour, dai musicisti indiani del Rajastan Express. Un mix curioso, tuttavia perfettamente travolgente: tanto è il coinvolgimento che affronto la fila al guardaroba sbuffando, perché i suoni di Junun arrivano fino all’ingresso, a farti muovere il bacino. Sarà perché ho sempre amato la word music e le contaminazioni stilistiche, i tamburi, l’idea di estasi mistica legata all’esperienza musicale, ma l’esibizione di Junun mi rapisce totalmente. Greenwood accompagna questi straordinari musicisti al basso o alla chitarra e si occupa dei campionamenti elettronici, con la solita classe.

La serata è cominciata alla grande, non poteva che continuare sulla stessa linea. Subito dopo gli Junun, Dj Shadow: si cambia genere totalmente, si parla della storia dell’hip hop sperimentale condensata in due ore. Visual pazzeschi, di ispirazione africana, ti incollano alla perfezione della perfomance, che ha il suo culmine con l’esecuzione di Endtroducing, il disco capolavoro. Pubblico in visibilio, anche quello meno avvezzo al rap, perché la capacità di Shadow di coinvolgerti come un raffinatissimo compositore e al contempo come un MC capace di scuotere il pubblico è stata evidente. Contemporaneamente a lui, nella sala gialla, quella gestita dalla Red Bull Music Academy, Caribou aka Daphni tra funk e atmosfere sognanti gli fa da contraltare “dance” (e un salto lo meritava proprio, persino facendo la fila per entrare nella piccola sala).

Chiudono la serata del main stage rispettivamente Jon Hopkins – sono alla sua sesta esibizione fra live e dj set e ancora non mi stanco – e Motor City Drum Ensemble: sono quasi le 6, non ce la fai più, la schiena duole e i capelli ti si sono incollati alla faccia, ti hanno rovesciato una decina di birre addosso eppure vuoi rimanere fino a che il Lingotto non si illuminerà a giorno. Perché Motor City Drum Ensemble – che in realtà risponde a una persona sola – spara suoni tropicali e latini fusi ai quattro quarti dell’house che non ti lasciano andare a casa. Alle 7, sotto una pioggia sottile e gelata, imploro all’americana – sporgendo un braccio – un tassista di fermarsi.

Il giorno dopo, raccogliendo le ultime forze, mi affaccio al party organizzato a San Salvario – un quartiere che ha poco da invidiare a una Pretz Lauerberg berlinese – dove si esibisce Lorenzo Senni, da poco entrato nella rosa di Warp Records. L’eccellenza dell’elettronica italiana, gira il mondo da anni fra festival e musei con la sua elettronica ambient onirica. Una degna conclusione di un festival sempre più bello.

Immagine di copertina: Autechre