Heimat, un disco generazionale che viene da lontano

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Una musica elettronica, quella dei Delta V, che accarezza le anime rimaste postmoderne, e che pensavano di cambiare il mondo almeno un po’. Una colonna sonora per comici spaventati guerrieri diventati adulti

Ci sono dischi che hanno una storia particolare, che assumono un significato generazionale. Senza stare a scomodare gli Who di My Generation, Heimat è un disco che parla direttamente ai nati negli anni 60, ovvero gli anni di nascita di Carlo Bertotti e Flavio Ferri, alias Delta V.

Cos’è un disco “generazionale”? È un album che attraverso testi e suoni arriva a raccontare cose e mondi che sono cresciuti con te e che sono condivisi da tutti quelli come te. Lo so, non basta essere nati nello stesso periodo per condividere valori e colori, basti pensare agli incontri sciagurati che si facevano ai tre giorni di visita militare (quando la leva era ancora obbligatoria) e incontravi tutti quelli nati nei tuoi stessi giorni. E in quel misto di burini e stupidi coetanei (te compreso) ti facevi un idea chiara su come l’astrologia non fosse una scienza esatta.

Heimat è un disco generazionale perché uno nato nel 1964 come me ci trova i suoni elettronici ed eroici degli Ultravox di Midge Ure, certe melodie che sono depositate dentro pezzi d’anima dimenticati da anni, testi con slogan riconoscibili e aggiornati (pagheremo caro pagheremo tutto, da Disturbano), racconti di vita quotidiana che appartengono alla nostra adolescenza, qualche suono stile Battiato o Propaganda e frasi che piovono da pomeriggi tristi e riflessivi, perché si scrive solo quando si sta un po’ così.

Il tutto suonato e arrangiato con classe ed eleganza, da sempre due tratti distintivi del gruppo. E cantati bene, con la giusta dose di male di vivere e voglia di guardare oltre da Marti, ultima voce femminile delle tante che hanno attraversato la storia dei Delta V, che tornano a nuova vita dopo 12 anni di sosta.

Quindi Heimat è un disco da vecchi (se per vecchio intendiamo un ultra cinquantenne)? No, e non solo perché ci sono brani, come 30 anni, che sembrano appartenere più alla generazione di Marti che a quella di Bertotti, autore di tutti i pezzi del disco. È un album anche molto “politico”, non perché prenda posizione contro qualche questione della vita quotidiana, ma perché prova a vedere le cose del nostro vivere dall’alto (o da lontano, come hanno detto alla presentazione live) e ci racconta di un periodo storico dove ci manca sempre qualcosa, e spesso non sappiamo cosa. E’ una lettera che ci arriva da un nostro fratello lontano, e che ci parla di cose che non vediamo più.

I Delta V fanno musica elettronica che accarezza le anime rimaste postmoderne, e che pensavano di cambiare almeno un po’ il mondo e invece hanno perso il giro. E non c’entra l’anno di nascita quando ci si sente così. Un flusso di coscienza ragionato, una colonna sonora per comici spaventati guerrieri diventati adulti. E che non si trovano proprio bene, in questo modello di mondo.

Bel disco insomma, persino un po’ troppo denso: basti dire che il momento più leggero sta probabilmente nella cover di Io sto bene dei CCCP, che diventa un pezzo elettrodance post punk delizioso nel mantenere la cifra dissacrante e disperata del testo. Per fortuna i pezzi dell’album suonati live sembrano più “lievi” anche negli arrangiamenti, o almeno così suonavano alla presentazione live del disco a fine gennaio. A breve lo si potrà riverificare anche nel minitour, con i concerti del 6 marzo a Milano ai Magazzini Generali e l’8 marzo a Torino all’Hiroshima Mon Amour. Allacciate le cinture, l’astronave riparte.

Delta V Heimat (Rca/Sony Music)

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