Triste il giusto, diretto con stile, recitato con affetto: Oscar Wilde, che bel finale di partita

In Cinema

Rupert Everett, regista debuttante e protagonista smaliziatissmo di “The Happy Prince”, racconta gli ultimi anni, quelli dell’esilio parigino, prima della morte, del commediografo e scrittore dublinese: reduce dai lavori forzati inflittigli dalla regina Vittoria per omosessualità (ma c’entravano, secondo molti, anche le simpatie irlandesi), solo e in povertà, abbandonato da molti ma non tutti (Andrè Gide lo andò a trovare) Wilde non rinnega amori e intelligenza, gioia di vivere e gusto della battuta. Il film ne è fedele resoconto, senza pietismi, con dolcezza e dignità. Colin Firth guida il cast in gran forma

Che sia l’anno di Oscar Wilde? Ricorrenze ufficiali non ce ne sono: è nato nel 1854, morto nel 1900, precedendo di poco la sua odiata, longeva regina Vittoria, che stilò quasi ad personam una legge omofoba e lo mandò ai lavori forzati, accusato di sodomia, anche se la vera ragione, dicono, stava nella sua protezione della causa irlandese, la sua terra di origine. Ad inizio di stagione l’Elfo di Milano ha recitato Atti osceni, bellissima istruttoria sugli atti processuali dello scrittore; dopo, in un gioco di specchi, ha debuttato in nuova edizione filologica L’importanza di chiamarsi Ernesto, successo travolgente. Se leggete il divertente e documentatissimo Queer city dello studioso Peter Ackroyd, pubblicato da Sem, vi farete un’idea della storia della Londra omosessuale nei secoli sfacciati: i peccati di Wilde sono, rispetto ad altre epoche, davvero veniali, e sarete anche informati che il gioco di parole tra Ernesto e Onesto ne chiude anche un terzo.

È sempre utile riaprire il libro cambiando capoverso e carattere di scrittura, e finalmente gustare in The Happy Prince, per audace merito di Rupert Everett, neo regista molto preciso, viscontiano (si lancia in una maxi citazione da Morte a Venezia), un Wilde lontano dai salotti inglesi e dalle prime teatrali nel West End. Lo vediamo – Everett è efficace e mai vittimistico – solo e ramingo viandante negli ultimi mesi del suo esilio parigino, quando veniva schivato da tutti e solamente pochi, come Andrè Gide (che scrisse su di lui un libretto prezioso di memorie), andarono al suo deserto funerale al Père-Lachaise.

Era in Francia sotto falso nome, così come lo furono le sue commedie, dopo la caduta. Ma Oscar conservava gli affetti della famiglia, della moglie che lo ha a lungo aiutato e non solo del suo traditore amante Bosie, con cui si è perduto e ritrovato e con cui ancora organizzava festini in folkloristiche trasferte a Posillipo (non la scena più riuscita). Il titolo del film è ispirato al Principe felice, fiaba che l’autore stesso si sentiva narrare la sera proustianamente dalla mamma, e che poi raccontò ai figli e, in finale di partita, pure a due giovanissimi amici.

Ci sono stati nel corso del tempo cinematografico alcuni film (uno si intitolava Ancora una domanda Oscar Wilde!, col punto esclamativo) sullo scrittore del Garofano verde (leggenda vuole fosse un segno distintivo omosessuale), quasi sempre centrati sui processi e sulla bravura di attori come Peter Finch; l’ultimo, di Brian Gilbert, vede seduto sul titolo Stephen Fry e Jude Law nel ruolo del non oscuro oggetto del desiderio.

Questo di Everett evidentemente non rinuncia a fondati sospetti personali autobiografici ed ogni riferimento a Hollywood non è casuale. Ma è un racconto che si sofferma amaramente sul finale di una vita deturpata dalle accuse, dall’intolleranza cui Wilde non rispose con la fuga come fecero altri nobiluomini inseguiti dalla stessa accusa di praticare “l’amore che non osa dire il proprio nome”. È un De profundiis, quasi una Via Crucis e anche un film sul valore dell’amicizia: Wilde, quando si ammala gravemente, è seguito da pochi fidati amici, fra cui Colin Firth. Questa biografia dello scrittore vittima di regali soprusi, è un finale di partita in povertà, nei bassifondi, ma senza perdere il sense of humour, da sempre la sua rete di protezione. Si lamentò quasi in coma di morire circondato da una così orribile carta da parati in un albergo da due soldi.

Il deb regista Rupert Everett (che impersonò Oscar Wilde in teatro, a Londra, in The Judas kiss) vaga nel tempo e nello spazio, nel dolore e nella solitudine, con gran passione per il concetto della dignità, inquadrando Wilde inseguito dai suoi fantasmi e dalla malattia che lo portò alla fine nel 1900, otite mista a una malattia venerea. Un film che Everett indossa sulle sue misure inquadrando un pezzo poco noto dell’infame storia e che sfodera, pur senza raggiungere labirinti di poesia, momenti dolci e ispirati: raccontato come un album di ignominie omofobe e anche di dolcezze di memorie, su cui incombe un riflesso cristologico che Oscar avrebbe risolto con una battuta da oscar.

The Happy Prince, di e con Rupert Everett, Colin Firth, Colin Morgan, Edwin Thomas, Emily Watson, Tom Wilkinson, Béatrice Dalle, John Standing, Edward Fox, Miranda Richardson, Daniel Weyman, André Penvern

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