La voce delle donne per riscrivere gli immaginari

In Teatro

All’Elfo Puccini fino a domenica 2 giugno, Cinzia Spanò si fa portavoce delle donne e di un mondo da cambiare: con una parola d’ordine: Esagerate!

“Posso lasciarvi un’eredità? Disobbedite, rompete la regola”. A cominciare dall’abito, dello stesso punto di colore, ma questa volta firmato da Adriana Morandi per Molce Atelier, a sartoria che cura, che fornisce alle donne vittime di violenza formazione professionale e sostegno psicologico, Sembra di vedere Michela Murgia, quando sul palco gremito della Sala Bausch arriva invece Cinzia Spanò. Che aggiunge, però, un’esortazione ancora più puntuale: Esagerate! “Pagate il prezzo di essere impopolari”, precisava Murgia: un prezzo che, con la freschezza di una stand up comedy e la precisione dello studio scientifico che il Collettivo Amleta, tra gli altri, porta avanti da ormai diversi anni. Uno studio che ci fotografa, in un ipotetico campionato delle pari opportunità, al 79° posto in classifica, alle spalle delle dittature di mezzo mondo. Eppure, ancora, c’è chi ritiene superfluo notarlo, o chi contesta come inutile una rassegna – all’interno della quale questo spettacolo si inserisce – cui Francesco Frongia dà il titolo “Prima le donne”, l’unico modo, forse, per accelerare un processo che vede la parità dietro l’angolo: quella delle opportunità, dati alla mano, si attende per il 2155, e, colmo di ottimismo, quella politica per il 2186, e infine quella economica, nel vicinissimo 2093. Forse, anche perché ci sono, anche tra le menti progressiste, persone a cui mettere di fronte un dato di realtà che condiziona la nostra stessa percezione di ogni attimo della quotidianità. Era stata proprio Murgia, ad esempio, a raccontare a uno come Gino Strada la medicina di genere, racconta la figlia. Vale a dire il fatto, nascosto in piena vista, su cui si sofferma Spanò tracciando l’immagine di un mondo fatto a misura di uomo, bianco, di circa 70kg per 1.77 di altezza. Il corpo, cioè, su cui sono tarati e testati l’efficacia dei farmaci, i trattamenti sanitari ma anche, perfino, i manichini dei crash test su cui si misurano le conseguenze di un impatto d’incidente stradale. A chi converrebbe, del resto, si dice senza dirlo negli uffici di produzione, spendere decine di migliaia di euro per misurare gli effetti della realtà sul corpo di una donna incinta?
Dati a cui, sempre più spesso, si applica l’etichetta violenta non solo di fastidiosa esagerazione, ma anche – più spesso – di esito di quella che qualcuno chiama cultura woke, quella che, sostengono, vuole cancellare le favole ai bambini. E allora, puntualizza Spanò, analizziamole, queste storie, perché è sugli archetipi e le narrazioni che costruiamo ciò che siamo. E se, Morettianamente, “le parole sono importanti”, vale invece la pena riflettere su quale immaginario ha formato la coscienza delle donne. A cui, ad esempio, Cappuccetto Rosso ha trasmesso il “ciclo della violenza”, del cattivo travestito da chi più amiamo: accumulo di tensione, esplosione di rabbia, e “luna di miele”, una richiesta di scuse e un felice esito destinato, nella realtà, a non durare. Per non dire di tutte le storie che instillano a bambini e bambine fino a che punto può essere pervertito il concetto di consenso. Cosa fare, allora? Non certo cancellare tutto, ma dar forma a nuove storie, nuovi immaginari, nuove consapevolezze, attraverso cui decodificare tutto ciò che ci ha reso chi siamo. Su molti aspetti, di oggi e di ieri, si potrebbe fermare l’analisi e concedersi una risata piena e amara insieme: il lavoro di Spanò, con il supporto di Valeria Perdonò alla regia e di Paola Giglio alla drammaturgia, si spinge fino all’attualità, puntellando una società in cui le figure apicali sono ancora sostanzialmente uomini (o tutt’al più donne che preferiscono assomigliare loro), e agli uomini è demandato il compito di raccontare l’umanità. Perfino agli alieni, come le alte sfere della NASA, cui da decenni mancano le parole e le immagini per raccontare il corpo delle donne, una manciata di decenni fa. Dopo la risata “avere più donne alla NASA è evitare figuracce con altre forme di vita”, rimane la nota di imbarazzo e il bisogno di nuove immagini, anche del femminile, come quelle che tratteggiano le illustrazioni di Giulia Rapisardi.
Abbiamo bisogno di nuove parole, ed “esageranza”, con tanto di attestato fuori dalla sala, può esserlo. Perché ogni donna lo sa: l’etichetta di “esagerata” ogni volta che prova a far notare la misura su cui si fa la realtà. Questo è, lo scotto da pagare, si diceva causa ed effetto a un tempo di un mondo che ancora non riusciamo a vedere. E lo dimostrano i tentativi di cambiare le cose, a cui ci si aggrappa per pervertire il concetto di merito. Ci si può stupire, allora, se le audizioni per un’orchestra sinfonica, pur se tenute dietro a un paravento, producano ancora una maggioranza di uomini. Solo, tuttavia, finchè non si fornisce a ciascuna delle concertiste un abbigliamento che non connoti il loro genere, che davvero le metta sullo stesso piano degli uomini, svelando il pregiudizio inconscio e ormai introiettato soprattutto dalle donne che lo subiscono. Finchè infatti a loro, come alle donne che, ogni giorno, svolgono due lavori di cui almeno uno, quello di cura quotidiana, non riconosciuto né retribuito, non si darà un’autentica parità. E allora si può ridere e sorridere, si può rivendicare e farsi forza, anche grazie a chi, come la Spanò coinvolgente e appassionata di questo lavoro, si assuma la responsabilità di farsi portavoce. A patto, però, di partire da qui per cambiare davvero le cose.

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