Chef: Gli avanzi di chi non ha scelta

In Teatro

Fino a domenica 17, al Teatro Elfo Puccini un monologo senza sconti per gli sconfitti che la società non perdona. In scena Viola Marietti, sempre più convincente

In tutto quello che faccio c’è un pezzo di me. La voce di Chef è rabbiosa e piena di tagli, come lo spazio che la stringe, sul palcoscenico del Teatro Elfo Puccini. Non ne conosciamo il nome, ma la sua funzione, il suo bisogno, è tutto quello che vuole davvero consegnare di sé. Nutrire, alimentare, far vivere, è tutto quello che vuole. Fermare il momento che – come il cibo – è perfetto un istante prima di essere inutile, solo quando è pronto, quando una manciata di elementi slegati si compongono, come ingredienti, a dar forma a una sensazione indimenticabile nella sua essenzialità. Ma è soltanto un istante. Quel che rimane più spesso sono gli avanzi, buttati alla rinfusa, in sfregio del loro valore. Sono vite sacrificate nel buio dietro le luci di una cucina stellata, è un padre violento pronto a spegnere un sogno con le mani intorno al collo di sua figlia. Anche quando avercela fatta, basta un passo falso per trasformare la prima responsabilità in una caduta rovinosa, i piatti in cocci e il sogno in uno strumento di morte, come lo sono i coltelli in mano ai bambini. In un sovrapporsi di piani temporali che coinvolge e disorienta, a mettere ordine è la rabbia, esplosiva e senza appello, il linguaggio greve e schietto di chi sa di non avere niente da perdere, perché ha già perso tutto. O meglio, perché tutto le è stato già tolto, strato dopo strato, come gli abiti che si toglie di dosso, fino a restare senza protezioni in balia di una giuria che non ha intenzione di concederle alcuna attenuante.

La stessa società che la spoglia, infatti, la giudica, quando alla rabbia si sostituisce l’affetto disperato e totale che si crea solo dentro una prigione, tra chi non ha trovato nessuno disposto a credere al nostro valore. È dentro un carcere – e la sua cucina – che Chef trova Candace, l’unico affetto autentico di una teoria di amori sbagliati e di assenze da cui sembra non poter uscire, nella vita libera. Ma l’immagine di futuro che può darle non è abbastanza a chi cerca il mare oltre le sbarre, come alla rabbia di Chef non era stato sufficiente il pianto di un padre invecchiato per ammansire il suo odio. Ci riesce forse soltanto la malattia, che ne mina il corpo e lo spinge a desiderare la morte così tante volte fatta sfiorare ad altri.  Ma con la stessa facilità con cui il sogno di una realizzazione scolora nell’incubo, e il cibo in rifiuto, la società ha già bollato come omicidio il suo gesto di pietà, e come detto nemmeno il carcere – dove pure Chef prova a ritornare la se stessa desiderata attraverso il nome che si è data – sarà forse l’ultima tappa di una caduta che, iniziata goccia a goccia, si fa torrente senza sosta, che risuona ovattato intorno a Chef e poi le si riversa addosso.

È l’acqua, la protagonista assoluta dell’allestimento, per cui la regia di Serena Sinigaglia opta per una realizzazione scenica intellettualmente ardita e sfidante nell’invito a decodificare la metafora, ma con un notevole impatto estetico. Acqua da raccogliere da terra, come i frammenti di una vita scorsa via senza che se ne riesca a riannodare davvero i fiili, acqua che a Chef non basta a lavar via l’orrore della violenza del mondo su di lei, anche se per provarci è costretta a usare pezzi di sé, in forma di abiti che si appesantiscono e si aggiungono al carico da portare.

Ne viene fuori uno spettacolo complesso e denso, che giova di un testo elegante nella sua ruvidezza, per come lo porta in italiano Monica Capuani, e di un’interprete, Viola Marietti, che al buio della scena risponde con luminosa maturità scenica. È intensa e affilata, misurata e abile a non diventare mai patetica, né – per contro – conciliante.
La piéce scritta dall’angloegiziana Sabrina Mahfouz è crudele, come i tagli di luce gelidi di Roberta Fraiolo, impersonali (tolta l’armatura sognata, raggiunta e perduta della divisa di cucina) di Katarina Vukcevic. Claustrofobica come la gabbia messa in scena da Marina Corti, che nei suoi bordi aguzzi, come esplosi, non lascia vedere possibilità di uscita ma nuovi cocci aguzzi, pronti a ferire ancora.

Così come fa il mondo, pronto a riempirsi la bocca di un riscatto che non esiste, che ha condannato i suoi sconfitti a non avere, davvero, un altro ruolo. A cui resta la libertà soltanto di gridare, a un pubblico che ascolta e chissà se sente: “eppure dovremmo averla, una seconda possibilità, no?”

Foto di copertina: Melanie Mattinzoli

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