Shakespeare, tra di noi

In Weekend

Perché il Bardo avrebbe amato il cinema e perché il cinema continua ad amarlo e a misurarsi con la sua opera eternamente giovane

Cosa significa oggi Shakespeare? L’ha spiegato alla perfezione Al Pacino, con il suo Looking For Richard: per l’uomo della strada è qualcosa di cui tutti hanno sentito parlare, ma che nessuno conosce, o sognerebbe lontanamente di approfondire.

È un autore da citare a memoria, anche quando non ne abbiamo mai letto un’opera per intero. È uno spettacolo che fa sbadigliare prima ancora che si faccia buio in sala. È il teatro che spaventa lo studente, la recitazione declamatoria e ampollosa in scene di cartapesta, sguardo contrito e teschio alla mano.

Eppure, confinato nei libri di letteratura inglese e celato a chiunque non lo cerchi con insistenza, o al contrario, esibito come vuota icona pop del made in Britain, il più famoso drammaturgo di tutti i tempi a ben vedere parrebbe non aver ancora smarrito lo smalto dei tempi migliori.

È un fatto: ogni anno, tra i coming soon in cartellone delle sale d’essai come dei cinema destinati al grande pubblico, figura almeno una trasposizione su pellicola o un indiretto tributo in apparenza insospettabile (si pensi alle affinità tra l’Amleto e il Re Leone disneyano, o alla Tempesta de Il Pianeta Proibito, classico della fantascienza anni ‘50) all’opera shakespeariana.

Nessun altro scrittore di teatro ha mai goduto di una tale attenzione in tutta la storia dell’intrattenimento su pellicola.

La longevità e l’efficacia del connubio tra l’autore inglese per eccellenza e la macchina da presa sono tutt’altro che una casualità, così come non è un caso che già Lawrence Olivier nel dopoguerra dichiarasse che «se nel 1599 fosse esistito il cinematografo, Shakespeare sarebbe stato il più grande produttore di film del suo tempo. Si può dire che egli scrivesse per il cinematografo».

Perché è proprio nel farsi precursore del concetto stesso di narrazione cinematografica che alberga ancora oggi l’elisir di eterna giovinezza del Bardo.

Se mai un drammaturgo ha sofferto della condizione di prigioniero su un semplice palco di assi, quello è Shakespeare: le sue opere raccontano di fragore di spade e cavalli, regge e castelli, sortilegi e visioni, chiamando ogni volta, anche esplicitamente, il pubblico fedele a un nuovo sforzo immaginativo che scavalchi le semplici mura del teatro elisabettiano.

Le sue riflessioni sull’arte della recitazione anticipano i dettami di realismo che faranno la fortuna di generazioni di leggende hollywoodiane. La sua scrittura fa uso sapiente di espedienti da grande schermo come l’ellissi e il montaggio alternato, spostando a piacimento (e alla faccia delle unità aristoteliche) la scena per spazio e tempo nel respiro di un sipario.

I suoi personaggi sono insieme vittima e carnefice, ricchi di sfumature mai banali, protagonisti o comparse in un quello che il critico teatrale Jan Kott chiama “il Grande Meccanismo” del dramma, giostra spettacolare e spietata da cui tutti prima o poi sono destinati a cadere in sacrificio ai pianti e alle risa del pubblico.

Ecco perché Shakespeare avrebbe amato il cinema. Lo avrebbe amato dello stesso amore di un altro grande narratore, Orson Welles, che definiva Hollywood il più grande trenino meccanico con cui avesse mai giocato.

Un cinema in grado di giocare con le immagini, dallo spettacolare al grottesco, pronto a stimolare la fantasia dello spettatore più scettico. Ed è per questo che chiunque si avvicini oggi a Shakespeare per farne un film dovrebbe prima di ogni altra cosa disfarsi di qualsiasi timore reverenziale e dare libero sfogo alle proprie visioni: il mestiere dei grandi narratori è innanzitutto quello di vendere sogni.

È ciò che ha fatto e continua a fare persino il versante più commerciale dell’odierna industria cinematografica europea e statunitense, cominciando con le sperimentazioni sottili del portabandiera Kenneth Branagh, tra un Hamlet ottocentesco e un Love’s Labour’s Lost da Broadway anni ’30, e liberandosi poi sempre più audacemente del peso di calzamaglie e balconi per vestire i propri eroi immortali ora in tuta mimetica (il Coriolanus di Ralph Fiennes, mai distribuito nelle sale italiane e ambientato in un simil-conflitto balcanico), ora in camicia hawaiana, pistole cesellate e duelli nella polvere a passo di danza (l’ormai celeberrimo Romeo+Juliet di Baz Luhrmann).

Capita così che, anche per celebrità ormai da lungo tempo prestate al grande schermo, Shakespeare costituisca ancora il decisivo banco di prova, a segnare la raggiunta maturità artistica, il passaggio a una ‘età adulta’ della regia e della recitazione, o metterne impietosamente in luce difetti e limiti.

Palcoscenico ideale per l’attore istrione come per il regista visionario, l’opera del Bardo presenta oggi la sua sfida più ardua, e nel contempo la più stimolante: dare forma sempre nuova a un contenuto che non invecchia, né potrebbe mai invecchiare.

Foto: William Hogarth – David Garrick as Richard III

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