Hamlet o Nixon? Questo è il dilemma all’Opéra Bastille

In Musica

Nixon in China, Valentina Carrasco

A cavallo tra marzo e aprile al teatro d’opera con il programma più charmant di Parigi vanno in scena due proposte di altissimo livello: “Hamlet” di Ambroise Thomas e “Nixon in China” di John Adams. Sul podio Pierre Dumoussaud e Gustavo Dudamel. Per non parlare del cast di canto… Consiglio? Prenotare al volo

Da Elsinor a Pechino senza muoversi da Bastille. L’Opéra di Parigi alterna in questi giorni due nuove produzioni extralusso sul suo palcoscenico principale: Hamlet di Ambroise Thomas e Nixon in China di John Adams, e sono tante le ragioni per non perdere le repliche (fino al 9 aprile Hamlet, fino al 16 Nixon). Innanzitutto la rarità delle due proposte, per quanto Hamlet sia tornato al centro delle attenzioni parigine con una produzione del 2018 dell’Opéra-Comique e l’opera di Adams sia ormai unanimemente ritenuta un capolavoro del canone. Ma anche per i cast di altissimo livello, con Ludovic Tézier e Lisette Oropesa come Hamlet e Ophélie, e Thomas Hampson e Renée Fleming come Nixon e consorte, per gli spettacoli di Krzysztof Warlikowski e di Valentina Carrasco, per non parlare della capacità di proporre un’opera nuova come quella di Adams non come curiosità per pochi ma come titolo di punta della stagione, con tanto di presenza del direttore musicale sul podio, Gustavo Dudamel, che mostra da subito come la partitura di Nixon sia assai meno “minimalista” di quanto le classificazioni suggeriscano.

Hamlet di Ambroise Thomas (regia di Krzysztof Warlikowski)

Ma partiamo da Hamlet di Thomas (una volta per tutte: la “t” di Hamlet si pronuncia, la “s” di Thomas no), in cui è meglio dimenticare Shakespeare, perché al centro dell’opera stanno più le pene d’amore della coppia Hamlet-Ophélie che i tormenti etico-filosofici del protagonista. Poco rimane dunque della ricchezza del dramma, rimodellato a grand opéra dai librettisti Carré e Barbier, che già avevano “melodrammatizzato” il Faust per Gounod. Oggi si fatica a capire quanto quest’opera potesse apparire come una novità per la musica francese di fine Secondo Impero. Gli ingredienti sono quelli che ci si aspetta: i soliti cinque atti, il balletto, la spettacolarità, ma non mancano differenze sostanziali rispetto ai lavori di Auber o Meryerbeer o al Tell di Rossini, in particolare l’assenza del tipico sfondo storico tipico, fatto di scontri tra popoli, lotte religiose e nemici esterni che schiacciano i personaggi. Nonostante l’appiattimento che si è detto, Shakespeare riesce comunque a spingere Thomas verso l’interiorità dei personaggi. Persino il balletto non è un semplice divertissement di circostanza, ma è perfettamente integrato nella drammaturgia, dal momento che riprende la celeberrima scena della rappresentazione teatrale, centrale nella tragedia scespiriana.

Scespiriana è anche la contestata messinscena di Warlikowski, che ambienta l’opera in una sorta di centro psichiatrico. Non proprio una novità, ma non si può dire sia una scelta inappropriata per un’opera con tanti personaggi in bilico tra lucidità e follia. Lo spettacolo è strutturato su due livelli temporali: primo e quinto atto corrispondono al presente del racconto, con il vecchio Hamlet che vaga tra le sale della casa di cura mentre la vecchissima madre sta in sedia a rotelle davanti alla televisione (dove viene trasmesso Les Dames du Bois de Boulogne di Bresson). Dal secondo al quarto atto si torna indietro di vent’anni per rivedere da vicino i traumi del protagonista: la vita quotidiana in compagnia degli assassini del padre, l’apparizione del fantasma, l’amore infelice con Ophélie, troncato dal suicidio di lei, che riapparirà nel finale spargendo le sue stesse ceneri sul palco. 

Forse la lettura di Warlikowski non svela nulla che già non si sapesse su Amleto, ma è sempre efficace perché il regista riesce a farsi prendere sempre sul serio. Anche nei passaggi più didascalici, come la sottolineatura dell’Edipo del protagonista, che alla fine del terzo entra nel letto insieme alla madre mentre canta “Dormez en paix, ma mère!”. Forse il vero merito di Warlikowski è aver attenuato il patetismo sentimentale di quest’opera con una calibratissima alternanza di cupezza, surrealismo e una sottile traccia di humour noir, come nella splendida scena dei becchini o nell’annegamento di Ophélie in una vasca da bagno, il momento migliore dello spettacolo, anche grazie a una pirotecnica Lisette Oropesa, attrice versatile capace di muoversi sul palco come sul set di un videoclip musicale. Intensa l’interpretazione di Ludovic Tézier, che con la chiarezza sofferta del suo declamato ridà al personaggio la profondità persa nel passaggio dal dramma all’opera. Pierre Dumoussaud dirige diligentemente una partitura che incanta per la bellezza delle melodie, ma che forse avrebbe bisogno di più varietà di colori e atmosfere.

Nixon in China di John Adams (regia di Valentina Carrasco)

Varietà che con grande sorpresa abbonda invece in Nixon in China, in cui il minimalismo di Adams, tutto giocato sull’iterazione, si dimostra in realtà personalissimo. L’opera, andata in scena per la prima volta a Houston nel 1987, nasce da una proposta del regista Peter Sellars che Adams, si racconta, inizialmente prese per uno scherzo. Invece l’idea di basare un’opera sulla cronaca della visita del 37° presidente degli Stati Uniti nella Cina di Mao si rivelò perfetta per il linguaggio del compositore, anche grazie al contributo della poetessa Alice Goodman, autrice di uno splendido libretto che il critico Alex Ross definisce “un poema epico della storia recente”. La partitura non si limita a ripetizioni, loop e sfasamenti tipici di Riley, Reich o Glass, ma combina nel suo tessuto ricorsivo citazioni da Wagner a Strauss a Sibelius, il tutto sostenuto da un’orchestrazione da grande sinfonia di inizio Novecento. Materiale perfetto per Dudamel, che con la sua direzione conferma quanto avesse ragione Brian Eno – appena insignito del Leone d’Oro alla Biennale Musica di Venezia – quando diceva che la ripetizione può essere una forma di cambiamento.

L’argentina Valentina Carrasco (nata lo stesso anno della visita di Nixon in Cina, 1972) firma una regia varia e intelligente, trovando un filo conduttore nella “politica del ping pong” iniziata nel 1971, che aprì la strada ai cinque giorni di visita del presidente americano l’anno successivo. A parte rendere felici i fan di Forrest Gump, questa scelta si dimostra efficace per il potenziale coreografico del tennis da tavolo, anche trattato con molta ironia in certi passaggi. Lo spettacolo alterna scene affrontate in modo letterale ad altre più simboliche, non evita di formulare critiche al regime cinese o alla politica americana, e però allo stesso tempo racconta della fascinazione dei coniugi Nixon, in particolare di Pat, per la Repubblica Popolare.

L’opera si chiude in un’atmosfera onirica e ovattata, in cui i giochi dei potenti, che nei quadri precedenti si sono svolti sempre con cerimoniali impeccabili, sembrano ormai lontani e dimenticati. Le ultime pagine danno spazio a una sorta di malinconia dei protagonisti, che hanno smesso di essere personaggi storici e si avviano ormai verso l’oblio della storia. Altro merito della regista è non aver calcato troppo la mano sull’imitazione. Tutti i protagonisti sono credibili senza essere caricaturali: Thomas Hampson e Renée Fleming come Richard e Pat Nixon, Joshua Bloom come Henry Kissinger, Xiaomeng Zhang come primo ministro cinese Chou En-lai, John Matthew Myers come Mao Tse-Tung, Kathleen Kim come Chiang Ch’ing, quarta moglie di Mao, cui spetta un’aria piena di virtuosismi.

In copertina: Nixon in China

All’Opéra Bastille:
Hamlet di Ambroise Thomas. Dirige Pierre Dumoussaud, regia di Krzysztof Warlikowski.
Nixon in China di John Adams. Dirige Gustavo Dudamel, regia di Valentina Carrasco
.

(Visited 1 times, 1 visits today)