Antonio e Cleopatra. La scelta “pop” di Malosti

In Teatro

Si è conclusa al LAC di Lugano la tournée egizio-romana che ha portato in scena gli affiatatissimi Valter Malosti e Anna Della Rosa nei rispettivi panni shakespeariani di “Antonio e Cleopatra”. Una compagnia ben amalgamata e ricca di sfaccettature, pronta a ricalcare il palco, con lo stesso spettacolo, dal 4 Giugno al Piccolo di Milano. Nel frattempo, ve la raccontiamo noi.

Benché in Inghilterra quella di Antonio e Cleopatra sia letta e apprezzata come il vero capolavoro storico-drammatico di Shakespeare, in Italia – a malincuore – è una delle tragedie meno frequentate e meno inscenate anche dalle regie più coraggiose. Invero, alcuni registi coraggiosi esistono e sanno che proprio in quest’opera prende vita uno dei personaggi femminili tra quelli meglio modellati e psicologicamente meglio costruiti del XVII secolo.

 Come sappiamo, la vicenda tratta la travolgente storia d’amore fra l’enigmatica regina d’Egitto (Anna Della Rosa) e il triumviro Marco Antonio (Valter Malosti) come cagione scatenante che darà vita al principato adottivo di Ottaviano (Dario Battaglia), primo imperatore a Roma e fratello dell’attuale moglie di Antonio, Ottavia (Carla Vukmirovic).

La prima scena della pièce è accolta da qualche risatina in sala poiché pregna di una dose meta-teatrale farsesca che vede recitare i due amanti, curiosamente, nei loro stessi panni. Poco dopo, l’attualizzazione si sposta verso uno sfondo rumoroso che rimanda alle discoteche frequentate da un’enclave egizia, che gozzoviglia tra il sibaritico e l’orgiastico. Da qui le scelte foniche si infittiscono e interferiscono con le luci spesso per incorniciare alcune battute che (s)drammatizzano filmicamente i personaggi, dualisticamente contrapposti nella dimensione romanocentrica ed etnocentrica del testo.

Al tal proposito, l’adattamento di Malosti e della Fusini è la scelta (forse obbligata) di ridurre notevolmente il numero dei personaggi, raggiungendo un limpido equilibrio delle parti. Il tutto è regolato tra il bisogno di attualizzare, per i destinatari in sala, il registro linguistico delle battute nella contemporaneità e l’obiettivo di conservare, tra le conseguenze drammatiche della vicenda, una buona dose di armonia e tradizionalità nello spettacolo.

Tutto la compagnia si mostra sinergica e sintonica, ma va però detto che un vero gioiello che fa da castone, in tutta la sua efebica competenza, viene interpretato dal giovanissimo Dario Guidi, nei panni un po’ caravaggeschi del Dio Eros, nonché servo dei due protagonisti; voce modulata, sia nel parlato, sia nel canto, accompagnato quest’ultimo dalla maestria di arpeggiare note magiche dal sapore “pop” sulle quali danzano ambasciatori, soldati e persino l’indovino (Massimo Verdastro). Quella di Guidi e della sua arpa è l’idea più azzeccata tra tutte, e quindi plauso alla regia!

Lo spettacolo si consuma come un crescendo interpretativo di autentica maestria, con i suoi alti e suoi bassi tonali, ma solo alla fine, nell’ultima mezz’ora, riesce a rendere davvero onore a Shakespeare; il pathos si intensifica e il tema della morte diventa il vero motore di un’interpretazione pertinente al dramma. Anche l’ultima sigaretta fumata prima del patibolo, come ultimo desiderio suicida della regina Cleopatra ha il suo perché: un fumo che si eleva, come incenso sacro di un rito funebre, nel riflesso di una petineuse.

Forse la vanità registica di mettere in scena un atto unico di 150 minuti risulta un po’ pesante negli ultimi istanti e pare una scelta, sicuramente accoglibile, ma eccessiva anche per la buon’anima di William Shakespeare.

Gli applausi fragorosi del pubblico chiudono il sipario in vista dell’attesissimo ritorno al Piccolo dal 4 al 9 giugno P.v.

Foto di copertina Tommaso Le Pera

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