La nostra casa felice: le donne, il Sud, le armi, gli amori.

In Letteratura

Quattro donne, un mistero, una inchiesta tesa e complessa, i clan, il porto, le collusioni, la piana di Gioia Tauro: l’esordio narrativo di Serena Uccello (“La nostra casa felice”, Giulio Perrone editore) è un romanzo in cui tutto è contaminato. E dove conoscere significa capire che ruolo dare alla propria coscienza.

Argentina ha scelto, ma potrebbe perdere tutto.
Nunzia si è fatta scegliere, e vorrebbe perdere tutto.
Per Cetta di rinunciare a qualcosa non se ne parla proprio – ché, anzi: lei vuole tutto, sempre.
Miriam è il crinale: il tempo della scelta sta arrivando, ma perché il futuro sia tutto, o nulla, è necessario capire. E decidere.

In quattro gradi di coscienza, tutta al femminile, corrono le pagine de La nostra casa felice (Giulio Perrone Editore), il primo romanzo di Serena Uccello: approdo narrativo di spessore che fa seguito a una intensa ed apprezzabile carriera di inchieste (su tutti, due titoli: L’isola civile – Le aziende siciliane contro il racket, Einaudi 2009; e Generazione Rosarno, Melampo 2015).

Il Sud, le mafie, la resistenza individuale, le collusioni, le responsabilità, la solitudine dei cittadini perbene, il senso dello Stato, la volontà civile: questo è il terreno su cui si è mosso per anni il lavoro giornalistico di Serena Uccello, e di questo si giova ora quella che è una solida conoscenza di meccanismi e linguaggi per diventare retroterra di narrazione.
Di fatto, La nostra casa felice è sì un romanzo di inchiesta (c’è un latitante, ci sono i maneggi all’ombra della legalità, le famiglie di mafia in antagonismo per i profitti sul territorio, la squadra mobile di Reggio Calabria, le gerarchie interne alla stazione di polizia), ma è anche e soprattutto un romanzo di inchiesta interiore e sociale.

Perché se c’è una domanda a cui il libro di Serena Uccello preme dare risposta, è proprio questa: in quanti modi è possibile rapportarsi con la propria coscienza, lì dove il terreno è contaminato dall’ambiguità, e nulla più è innocente?

Al centro della storia sta una poliziotta, Argentina: una donna che ha maturato scelte precise, ed è a un punto di svolta – professionale, personale – ma che proprio dentro il mondo che si è costruita pezzo per pezzo (il lavoro in polizia, il matrimonio, la casa che guarda sul mare) scopre di essere vulnerabile: una volta individuata la crepa, l’intonaco non può più essere guardato nella stessa maniera. Suo è il compito più difficile di tutta la vicenda: capire chi sta con chi, attraversare i lembi di una terra martoriata, costringersi ad analizzare chi le sta intorno, anticiparne le mosse, decifrare i dialoghi e i silenzi.

Suo è anche il più grande rischio di perdita di tutta la vicenda, e il maggiore cambiamento: poiché lei è, di fatto, il personaggio di maggiore profondità e complessità psicologica, incardinato com’è ad un sistema di valori che prevede anche l’esercizio del dubbio – e la rivalutazione delle traiettorie.

Speculare e opposta ad Argentina è Nunzia: figlia di boss, sorella di latitante, moglie di mafioso. È lei l’oggetto del pedinamento, dell’intercettazione ambientale, dell’indagine: la voce e il corpo che Argentina studia, passo dopo passo, alla ricerca di indizi e possibili appigli.
Nunzia ha fatto sue tutte le scelte volute per lei da altri, è erosa dalla volontà e dalla violenza in cui scorrono le sue giornate: una violenza sottaciuta, che esce in una frase, in un gesto di impulso. Il sistematico ridimensionamento della sua vita di apparente privilegio la porta a sentirsi di nessun valore. Ma è proprio quando definisce il processo di nullificazione della sua volontà, quando capisce di essere al grado zero, che trova le risorse per guardare in modo diverso:

Ed era tutto un inganno, il corredo da una parte, i mobili per la casa dall’altra. Un po’ i suoi, suo padre e sua madre, un po’ questi qua che lei doveva chiamare papà e mamma comunque. Ogni oggetto era fasullo. Tenevano tutto e in quel modo decidevano, pure le tende decidevano. Come sua madre che continuava a ripetere Ma che ti sei messa addosso? Qualunque cosa fosse un atto arbitrario era Ma cosa ti sei messa addosso? O che hai fatto? O come ti sei persuasa?

Argentina e Nunzia costituiscono la diade bifronte su cui si innesca il romanzo: più Argentina indaga nella vita e nei rapporti di Nunzia, più è costretta a rivedere le certezze del suo mondo, e scopre e ragiona su di sé.

Emerge, fortissimo, il tema della relazione tra madre e figlia, del rapporto tra generazioni.

Così, tanto il sistema dei personaggi maschili risulta ingabbiato dai propri ruoli (bloccato è Antonio, il marito di Argentina, nella sua ambizione; è Domenico, il fratello di Nunzia, nella latitanza, e pure il loro padre, Gregorio, nella restrizione del carcere), tanto mobili e dinamici sono invece le donne della storia, in constante confronto interiore tra volere, dovere ed essere – persino lì dove, come nel caso della misteriosa Maria Chiara, il personaggio femminile è tratteggiato per sottrazione.

L’unica, monolitica eccezione è quella di Cetta: che ha partorito sia Nunzia sia Domenico, ma che solo di Domenico si sente madre.

Pure ora che sono bianchi i capelli della madre restano leggeri e lucidi. Folti si compongono sulla nuca con poche forcine. Porta il nero, d’altronde c’è sempre un morto a cui tributare il lutto. L’ultimo lutto è cominciato il 27 aprile 2009, non è passeggero, ma non può essere ostentato e durerà tutta la vita. La vecchia ha già disposto che vuole essere sepolta con il nero. Lignea la vecchia tanto asciutta, è quasi solenne. La pelle trasparente, le labbra un taglio ma ben proporzionato, gli occhi mutevoli come la luce, l’unica eccezione all’equilibrio è il naso forse eccessivo.

Cetta è una madre tremenda, sbilanciata, che non nutre alcun dubbio sulla parte con cui schierarsi: riafferma in ogni sua scelta l’insindacabile autorità patriarcale: arcaica, violenta, rancorosa, è la vera antagonista di tutta la vicenda.

Più l’indagine della squadra mobile di Reggio Calabria si avvicina a districare i movimenti della famiglia, più il cerchio si stringe, maggiore è la stratificazione di misteri, esterni e interni al nucleo dei congiunti.
Dunque: che significano gli investimenti in corso per un nuovo centro commerciale?
Come funziona il sistema di usura ai danni dei piccoli negozianti?
Da dove arriva e dove va la droga del porto?
Quale sarà il prossimo morto nella scacchiera della guerra tra i clan?

E, soprattutto: chi governa chi?

La pazienza del bunker, la ricostruzione manuelina dei dialoghi intercettati, l’inseguimento dei movimenti bancari: si allarga l’indagine, e apre porte che aprono altre porte, e attraverso il buco della serratura il paesaggio che si intravvede è quello, martoriato, di un luogo in cui ogni potere risulta contaminato.

Se non fosse un libro, La nostra casa felice sarebbe già un ottimo film: il ritmo della scrittura è dominato da sapienti dilatazioni di tempo e da scarti veloci, da digressioni e slittamenti all’indietro e nella profondità delle relazioni tra i personaggi.
Il punto di vista della narrazione, usato dall’autrice come uno strumento dinamico e di modulazione di intensità, è il mezzo attraverso il quale cambiano sguardi, voci e velocità della storia, esattamente come in un oculato sistema di cambi di camera. Il tutto, con una asciuttezza di taglio cinematografico, che però non rinuncia mai a una scrittura limpida, precisa, mai innaturale, sempre vivida:

Porta, chiave, il contraccolpo dell’ascensore. La portiera di una macchina. Un urlo a volte, ma non sempre. È tipico, anche a lui e ad Argentina, pensa, è andata in questo modo, pressappoco. Tranne l’urlo.
Le calze ai piedi che raccolgono la polvere del pavimento. Una coperta, e la testa sotto infagottata. Un divano e i cuscini sbilenchi. E lui è uscito, ha preso la macchina ed è andato e lei non lo chiama ancora. E lui non ha scritto un messaggio. E neanche lei ha scritto un messaggio.

Si percepisce presto che La nostra casa felice è un dispositivo a incastro, come di scatole cinesi: dunque, fino all’ultima riga, nulla è possibile dare per scontato. Nelle sabbie mobili della contaminazione, che tutto sembra guastare, non tutto finisce per capitolare. Ci sono, nel corso del romanzo, una serie di ancore resistenti, di indizi di possibilità: e sono, tutte, legate alla scuola – che siano la figura di una vecchia maestra elementare, o la traccia di un tema, o il senso di una traduzione dal latino, o, ancora, il pensiero della giovane Miriam, la figlia di Nunzia.

…io quando entro a scuola non penso più a niente. Mi dimentico di tutto. A scuola sono solo io, sono Miriam e basta.

È nella scuola che si ravvede, dunque, una alternativa e un antidoto alla logica delle faide e della prevaricazione. E non è un caso, poiché è nella scuola che abita, ancora, la capacità delle parole di farsi progresso. Ed è a una lettera, di una studentessa che nella scuola ha trovato il suo modo di essere, i suoi riferimenti, le sue radici emotive, che viene affidato l’epilogo: l’ultima svolta in pagina.

Serena Uccello lavora a Il Sole 24 Ore. Il suo ultimo lavoro per Einaudi è Corruzione.
Ha ideato e dirige la pagina Scrittori a domicilio, rete di incontri presentazioni e riflessioni sulla scrittura e con gli scrittori.

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