Omaggio a Leopoli, città di storie e magie

In Letteratura, Weekend

Leggere oggi, ai tempi della guerra di Putin, ‘Jimi Hendrix A Leopoli’, città multietnica che ora accoglie i profughi da tutta l’Ucraina significa addentrarsi in atmosfere stralunate e personaggi surreali. Di più: il romanzo di Andrei Kurkov, pubblicato nel 2014 e tradotto prima della guerra, rimanda a quel che oggi , sotto le bombe, in Ucraina e a Leopoli sembra quasi un miraggio: l’essere ibridi, contenere molte eredità e molte storie

Leopoli, per noi. L’viv in polacco, L’vov in ucraino e russo, Lemberg in tedesco. A settanta chilometri dalla Polonia, 700 mila e rotti abitanti che fino a qualche mese fa sfioravano il milione con i pendolari e che, racconta ad Avvenire lo scrittore Andrei Kurkov, ora sono triplicati. «Rifugiati da tutta l’Ucraina sono venuti qui e vivono nei dormitori universitari, negli alberghi, con i residenti locali. Recentemente, un rifugiato ha scritto su Facebook che non aveva mai visto così tanti ucraini famosi in una città e in un solo posto. Tutti sono attratti dal centro storico. In tempi normali, migliaia di turisti stranieri vi camminano, ma ora sono stati sostituiti da rifugiati provenienti da tutte le regioni dell’Ucraina».

Leopoli con il suo centro storico medievale patrimonio dell’umanità, ora bersaglio delle bombe russe, con le sue memorie illustri o pop (il grande Joseph Roth, ebreo galiziano trapiantato a Vienna, era originario di qui, e qui è stata girata parte di Schindler’s List), con il suo passato storico turbolento e insanguinato. Prima polacca, poi asburgica, negli anni Venti del secolo breve capitale dell’effimera repubblica ucraina (a fine ‘800, proprio Leopoli è la culla dell’irredentismo), poi nuovamente polacca con ucraini ed ebrei perseguitati, poi nazista con 100mila ebrei sterminati, poi russa con la lingua ucraina proibita e i polacchi espulsi, infine dal 1991 ucraina.

Leopoli città magica, giura lo scrittore Andrei Kurkov del quale ci accingiamo a parlare. Non proprio come Praga, ma insomma. Non proprio come Vitebsk che sta 800 chilometri a nord in Bielorussia, dove volavano asini, rabbini e innamorati nei quadri di Chagall, mentre qui, nel romanzo Jimi Hendrix a Leopoli (traduzione di Rosa Mauro, 400 pagg., 18,50 euro, editore Keller di Rovereto) volano gabbiani anche se siamo a mille chilometri dal mare, e dai rubinetti delle case esce acqua salata.

Tutto comincia in un cimitero, una sera. Un gruppo di attempati hippies guidati da Alik che nella vita fa il datore di luci al teatro dell’opera – erano una cinquantina negli anni ’60, ora il gruppo si è sfoltito – si raduna attorno a una tomba senza nome che è stata espropriata e consacrata a Jimi Hendrix. Circola la vodka, si ricordano i bei tempi, a un certo punto si unisce alla congrega un bassotto attempato, il capitano Rjabcev che nella loro gioventù li sorvegliava per conto del Kgb ed era segretamente attratto da quella musica. “Jimi Hendrix mi ha cambiato la vita”, giura, e racconta che fu lui, assieme a un altro collega renitente, a fare avere agli hippies una mano di Jimi – la sinistra, che recava i segni di ustioni di quel concerto in cui aveva dato alle fiamme la sua chitarra – da seppellire in quella tomba. Inutile dire che, superate le diffidenze iniziali, l’ex spione e Alik faranno coppia fissa nel romanzo.

Sciolta l’adunanza, Alik e un amico si dirigono verso casa a piedi. Rischiano di essere investiti, ma l’auto che li ha evitati li prende a bordo e li porta a destinazione. La guida il mite e solitario trentasettenne Taras, che per vivere guida una vecchia Opel Vectra – è stata nel corso degli anni tedesca, polacca, bielorussa e ora è ucraina come i protagonisti – a fini paramedici. Di notte, gran parte del romanzo si srotola dopo il tramonto, scarrozza clienti polacchi, baltici, russi afflitti dai calcoli renali sull’acciottolato sconnesso della città, in modo che i sobbalzi, accentuati dalle sospensioni precarie della vettura, ne provochino l’espulsione.

Prima che sorga l’alba – l’eccentrico paramedico si addormenta alle sei nel suo monolocale, sulle note dell’inno nazionale ucraino trasmesso alla radio – Taras fa sosta in un cambiavalute aperto tutta la notte. Qui Darka, una ragazza con le mani protette dai guanti – ha un’allergia al denaro – gli cambia gli zloty, euro, rubli ricevuti in compenso in valuta locale. Inutile dire che tra i due scoppierà un amore da innamorati di Chagall, sublime e kitsch al tempo stesso, cementato da thermos di caffè versati in posacenere decorati con le gondole di Venezia e dalle pietruzze dei calcoli che rivelano virtù taumaturgiche contro le allergie.

L’amore, il mistero. Già, perché a Leopoli che è distante dal mare volano gabbiani che aggrediscono i passanti e sfondano le finestre delle case, l’aria sa di alga marcia e chi la respira sta male, rischia il collasso, mentre in città i suicidi aumentano. Una tempesta magnetica, l’affioramento del preistorico mare dei Carpazi? Alik e il capitano Rjabcev risolveranno il mistero, c’entra qualcosa la città di Odessa ma non diremo come, mentre Taras e Darka coroneranno il loro amore, tutto finisce bene in questo romanzo come speriamo che accada anche all’Ucraina.

Che altro? Una piccola folla di personaggi e di situazioni: il barbiere ed ex alcolista Ezi che corteggia impacciato l’attrice e soccorritrice di senzatetto Oksana che regala acquari e distribuisce pasti caldi, una veggente e un fisico che indaga sulle “cattive vibrazioni”, lo scrittore Jurko Vinnicuk al quale è scappato un personaggio da un romanzo, i mille clienti con i calcoli (c’è anche un principe polacco che espelle perle), molta vodka e colombi d’allevamento e cibi terrificanti in una città in cui la felicità barcolla e la forza dell’amore è messa alla prova.

Pubblicato nel 2014 e tradotto prima dell’aggressione putiniana, il romanzo del sessantunenne ucraino Andrei Kurkov, che scrive peraltro in russo, può apparire un oggetto alla moda ma, a una lettura meno superficiale, resta e dice molte cose. Dice nel suo carattere ibrido che ibrida è l’Ucraina. Alcuni recensori hanno parlato dei Monty Python ed è vero, qualche atmosfera alla Terry Gilliam si rinviene ma c’è anche l’eredità del grottesco russo/ucraino – Gogol, soprattutto il Bulgakov di un Maestro e Margherita senza mistica – e nei suoi umori circola il surrealismo ruspante e scapigliato dell’Europa centrale – penso al praghese Bohumil Hrabal di Treni strettamente sorvegliati e Ho servito il re d’Inghilterra – . 

Soprattutto, Jimi Hendrix a Leopoli testimonia di una possibilità che ancora ieri non era un miraggio: gestire un passato di molte patrie e molti invasori; gestire persino con bonomia, come nel romanzo accade, il lascito di miseria e fantasmi dispotici del dissolto impero sovietico. Chissà se sarà ancora possibile perché – lo scrive Milan Kundera nel prezioso Un Occidente prigioniero appena pubblicato da Adelphi che raccoglie un suo discorso prima dei carri armati di Mosca a Praga e un suo intervento da expat degli anni ’80 – «l’Europa centrale voleva essere l’immagine condensata dell’Europa e della sua multiforme ricchezza, una piccola Europa ultraeuropea, modello in miniatura dell’Europa delle nazioni concepita sulla base di questa regola: il massimo di diversità nel minimo spazio. Come avrebbe potuto non inorridire di fronte alla Russia, che si fondava sulla regola opposta: il minimo di diversità nel massimo spazio?». Vale per questa Leopoli che già ieri guardava all’Occidente, vale anche per l’Ucraina di oggi.

In apertura: Leopoli, Ucraina. Maciej Rusek/ unsplash