Ella Sanders racconta e illustra con magnifici acquerelli i modi di dire in giro per il mondo, anni fa l’operazione simile ma più personale e tutta milanese di Gloria Origgi
E’ una delizia di libricino questo Tagliare le nuvole col naso , in cui Ella Frances Sanders, oggi in Italia a Roma a Più libri Più liberi, raccoglie modi di dire di tutto il mondo e insieme li illustra con fantastici acquerelli.
Ed è così che Sanders ce lo presenta: «Questi cinquantadue proverbi, espressioni e frasi idiomatiche forse vi daranno nuovi spunti per riflettere sul mondo intorno a voi; soffieranno un pizzico di magnificenza nel quotidiano; daranno un nuovo colore all’orizzonte, svelando ciò che sfuggiva alla vista. La maggior parte di queste espressioni richiama la natura – i paesaggi, le creature e le piante con cui ci siamo evoluti – e questo dice davvero molto su come vedessimo le cose in passato e su come le vediamo ora, sia che il detto provenga da una lingua scandinava o africana».
Partiamo dal concreto, prendiamo il detto serbo che dà titolo e copertina al volume: taglia le nuvole col naso. «Se tagliate le nuvole col naso allora siete tronfi, compiaciuti, addirittura vanitosi. L’idea è che A) ve ne andiate in giro con il naso all’insù e B) abbiate un’opinione talmente elevata di voi stessi da essere arrivati all’altezza delle nuvole». Seguono associazioni con espressioni idiomatiche affini in altre lingue, certe volte illuminanti, altre deludenti.
Ma la delizia è che frasi e immagini mettono in moto una parte più libera, più giocosa del nostro cervello: ci sembra di tornare indietro a un mondo primitivo e poetico anche nostro poi perduto e dimenticato. Lasciarsi andare al piacere di leggere questi piccoli modi di dire è una specie di esercizio, rasserenante come farsi cullare da un’amaca, per recuperare la dimensione del fantasticare.
Prendiamo uno tra i più comuni detti giapponesi: Anche le scimmie cadono dagli alberi.
Non ha senso: perché mai una scimmia dovrebbe cadere dagli alberi? E’ un modo – e lo intuiamo benissimo – per sottolineare che capita a tutti di sbagliare, anche al più serio, competente. Tutti possono commettere errori. Famigliari, nel loro apparente nonsense, lo spagnolo Sentirsi come un polpo in un garage , o il norvegese: Farsi beccare con la barba nella buca delle lettere .
Il tema ricorda un libro di qualche anno fa, La figlia della gallina nera di Gloria Origgi, che ha un taglio diverso, più sociale e personale. Per l’autrice i modi di dire, più ancora dell’accento, svelano da dove vieni, chi sei e, proprio perché uno non ci fa tanto caso, tradiscono come sei cresciuto, in che famiglia, con quali valori e anche quanti anni hai. Certi termini, certe associazioni sono legati a personaggi, a pubblicità, a giochi di un periodo preciso e diventano ridicoli, incomprensibili in un attimo. In questo divertente libricino, Gloria Origgi raccoglie in ordine alfabetico parole e modi di dire della sua infanzia e insieme racconta chi li usava, per cosa, con che tono e ci dà uno spaccato di come si viveva a Milano intorno agli anni ’60. La maggior parte di queste parole sono incomprensibili per i ragazzi d’oggi che, oppure, le usano malamente per prendere in giro genitori bacchettoni, anzi ‘barbosi’ o semplicemente ‘rompiballe’.
Ma per noi matusa è delizioso rituffarsi in quel mondo. Un’operazione un po’ nostalgica, raccontata con garbo e ironia. L’atmosfera è simile agli esilaranti racconti giovanili di Gadda, Arbasino, Testori, ovviamente senza nessuna pretesa di letteratura alta.
D’obbligo cominciare col titolo: “E chi sono io? La figlia della gallina nera?”. E’ lei l’ultima a essere servita a tavola, l’ultima a ricevere un bacio, trascurata come il brutto anatroccolo. Mugugna e non ha il coraggio di far valere i suoi diritti. E’ il sentimento che hanno tanti secondogeniti, invidiosi dei fratelli più amati e viziati. Proseguiamo coi detti, ordinati in rigoroso ordine alfabetico.
Austerity: correva l’anno 1973, la prima crisi petrolifera e le prime misure di austerità nazionale. Chissà perché l’avevano propagandata in inglese? A domeniche alterne non si potevano usare le macchine, c’era un’atmosfera strana, qualcuno andava in giro con la carrozzella tirata da cavalli, la gente era più amichevole, come se si fosse creata una certa complicità nella rinuncia collettiva. Alle nonne piaceva: cresciute col razionamento in tempo di guerra, non sopportavano gli sprechi: stare troppo al telefono in teleselezione, buttar via il cibo, era qualcosa che faceva “gridar vendetta al cielo”.
Baggianata: è una sciocchezza che non val la pena di ascoltare. E’ più educato di boiata.
Borghese: “I borghesi son tutti dei porci, più sono grassi più sono lerci, più sono lerci e più c’hanno i milioni…”, cantava Giorgio Gaber e la contestatrice, bardata di poncho e zoccoli, la urlava nelle orecchie alla mamma per farla arrabbiare.
Bru bru: è un affarista tutto fumo e niente arrosto, l’etimo è onomatopeico. Da non confondersi con Buzzurro: maleducato, bullo; così chiamavano i contadini che venivano giù dalle montagne, un po’ come cafone. Cancro: si pronunciava a bassa voce, una brutta parola. Neanche i medici lo dicevano agli ammalati, pensando che gli avrebbero rovinato gli ultimi mesi di vita. Cariatide è invece una signora anziana, rigida come una statua greca, imbalsamata nei ricordi. Cose turche erano cose estreme, esagerate, spesso con connotazione sessuale.
Gli omosessuali erano detti educatamente invertiti, forse perché vanno nella direzione opposta agli altri, implicitamente un po’ sbagliata. Non ha lo spregio del romanesco frocio. Si sussurrava di qualche amico di famiglia scapolo, elegante e molto segreto. Maniaco rappresentava l’ossessione delle mamma: si aggiravano pronti a spalancare l’impermeabile rigorosamente bianco ai giardinetti o al cinema a vedere Walt Disney, allungando le mani sulle ginocchia delle bambine; i maschi erano per lo più al sicuro. Di pedofili non si parlava ancora.
Concludiamo con una mutazione antropologica: il ‘volere ma non posso’ indicava chi si metteva gioielli, vestiti lussuosi, le griffe di oggi, per colpire, ostentare la sua ricchezza. Era il massimo del cattivo gusto, perché il vero borghese milanese di quegli anni ‘ può ma non vuole, emette segnali robusti e affidabili della sua solvibilità, ma con discrezione, senza strafare’.