Laura Pariani, “Selvaggia e aspra e forte”: nella selva il gioco della ferocia. Umana.

In Letteratura

Dalla stagione dorata di pittore di successo (comprensiva di crociera a vela con D’Annunzio e compagnia) alla foresta del Chaco, tra Paraguay e Bolivia. La vita di Guido Boggiani finisce con un tremendo omicidio, ma il mistero più grande è proprio quello della sua esistenza: una sorta di Ulisse con la volontà di attraversare un limite imperdonabile, quello tra due diverse civiltà – l’una (il Vecchio Mondo) stanziale, e l’altra (quella degli Indios), che continua a muoversi. Apprendista delle lingue dei nativi, collezionista della loro arte, fotografo eccezionale di corpi e sguardi, Boggiani è un ribelle fuori sacco: non è possibile contenerlo dentro nessuna etichetta a lui precedente, poiché è, davvero, uno spirito di frontiera. Ed è, soprattutto, irriducibile rispetto agli interessi del mondo che gli cresce intorno.
Nel nuovo romanzo di Laura Pariani, un racconto corale sul viaggio di una vita che ha avuto il talento della libertà e l’attitudine per l’incontro con l’altro. Il mito, la selva, la violenza dei coloni, la lacerazione della migrazione, il crepuscolo della civiltà nomade: un romanzo plurale che parla al presente della volontà di potenza. Anche quando, esercitata contro la natura, si rivolge contro l’umanità stessa.

Un uomo si spinge nel cuore della selva, inseguendo una popolazione leggendaria e misteriosa. Scompare. Il suo corpo viene ritrovato orrendamente straziato.
Ma chi è, veramente, Guido Boggiani? E quale è stata – davvero – la foresta nella quale il suo destino si è addentrato?
Ventitré voci di testimoni non neutrali dicono la loro: è l’avanguardia dell’intelligenza umana, è un impiastro che deve sparire, è un pericoloso utopista, è il futuro che potremmo diventare, è semplicemente uno dei tanti sprovveduti di passaggio – un gringo che non sa nemmeno bere il mate.
Ognuno ha un proprio personale ricordo, ognuno ha qualcosa di veritiero da raccontare: chi non parla, pensa – e così, tutte insieme, le voci si intrecciano a distanza, e concorrono a ricostruire, nodo dopo nodo, la trama che forma il tappeto sul quale ha camminato la vita terrena di Guido Boggiani. Ed è chiaro che, prima ancora che dentro al verde inquieto del Chaco, di cui è stato esperto e amico, altro è l’intrico nel quale la sua vita ha deciso di inoltrarsi. 

Tanto, tantissimo si arriva a intuire del protagonista del nuovo romanzo di Laura Pariani, Selvaggia e aspra e forte (pubblicato da La Nave di Teseo): pittore di successo, talento inappagato, uomo irrequieto, spirito avventuroso, esploratore della foresta, fratello degli Indios, fotografo di corpi di bellezza vivida e sconvolgente.
Ma, proprio come nell’armatura di un tessuto, anche in questa storia nessun filo, da solo, è sufficiente per dare contezza del disegno complessivo, e per capirne il senso occorre che l’opera sia conclusa e una distanza venga presa.

Il tempo, quello cronologico delle vicende, è un arco che va dal 1867 (Guido è un bambino di 6 anni), indugia intorno al 1898 (il periodo nel quale Boggiani, che è tornato stabilmente in Paraguay per la seconda volta, progetta una nuova esplorazione dei territori sconosciuti della selva), e sborda un poco oltre il 1901, quando l’indagine sulla sua morte si chiude frettolosamente con una archiviazione senza movente.
Ed è nel 2008 che, decantato il rumore della vicenda, una donna riprende in mano i taccuini, i giornali, le testimonianze, cerca di entrare nello sguardo di un artista refrattario alle pose, e mette i piedi sulle sue orme chiedendosi perché, decisa a restituirne memoria.

Laura Pariani torna nelle atmosfere pluviali e remote di Quando Dio ballava il tango, e come allora è maestra nel tessere un intreccio che è, contemporaneamente, romanzo corale e vicenda storica, affresco antropologico e riflessione civile.

“Incontri, incastri della vita. La telaragna del tempo è la stessa in ogni parte del mondo: quando l’ala di una storia ne sfiora un filo, tutto il tessuto del tempo si muove”.

All’inizio, il Sur, il Sud estremo che sta oltre l’oceano, è poco più di un sogno: una parola che occupa il destino di generazioni di poveri e disperati a cui non resta altro che andare; e che poi, da lì dove sono arrivati, mandano indietro racconti che hanno bisogno di essere prodigiosi, perché serve nascondere una realtà difficilmente immaginabile di fatica e lacerazione, e non ci si può permettere il rischio di far perdere di senso alla propria vita.
Ma poi il Sur diventa una promessa di totale avventura: cresce la sua fascinazione remota insieme all’assiduità della sua frequentazione, insieme ai terreni sottratti alla foresta, alle baracche che diventano città, ai chilometri che la ferrovia si mangia per avanzare (perché sin ferrocarril no hay fábrica…).
Le vite che vi si stabiliscono, che vi nascono, che intraprendono periodicamente un ritorno a tempo nel Vecchio Mondo, maturano la propria identità sulla base della comparazione. Tutti gli europei, coloni, sono ossessionati dall’affermazione della propria alterità rispetto agli indios: una alterità che, naturalmente (nella pastura di nazionalismo, rancore, ignoranza e violenta volontà di affermazione che contraddistingue ogni conquista) ha i connotati della superiorità.
Guai scoprirsi, pur nell’agiatezza guadagnata coi denti, periferia del mondo; guai confessarsi quello che la quotidianità di paesaggi e natura sproporzionatamente diverse serve sotto gli occhi – ovvero che, nella migrazione, si è cambiati, in modo irrimediabile, contaminati (anche nella negazione assoluta) dal contatto con l’altro.

Eppure lo dice la lingua, e in questo Laura Pariani è abilissima a orchestrare una deriva del parlato di questo romanzo, che slitta pian piano dalla commistione materna dell’italiano attraversato dalla sprudenza, dalle parole che conservano memoria di una infanzia dove trovano posto ridaróla, incandelarsi, bisnàga, a un nuovo modo di dire le cose nel quale entrano non solo il castigliano d’oltreoceano, ma anche le interferenze delle parlate autoctone, i nomi di un presente tutto nuovo, inventato e sconosciuto (il palo santo e la toldería, la curandera e l’anaconda). E, soprattutto, un patrimonio di leggende, figure mitologiche, divinità della selva, archetipi difformi che tutto pervade.

“Il mito (…) è la materia prima della poesia, dell’arte, di qualunque arte. È il motore poderoso capace di evocare l’emozione primitiva, quella che sta nascosta nel cuore dell’uomo, e di tirarla fuori integra, fresca e sanguinolenta per il fiore della realtà”

Mentre la storia si intreccia, e le voci si sovrappongono da tempi e latitudini diverse, Guido compie una dislocazione: quando è in compagnia di europei si fa lontano; e quando lontano lo è davvero, e solitario dentro la foresta, maggiore è la consapevolezza che acquisisce sulla distanza incolmabile che lo separa dal mondo in cui vive, perché capisce che la sua natura è sempre più altrove.
Comincia così la sua metamorfosi: fugge dal successo all’inseguimento di una verità, abbandona le mostre che l’hanno visto entrare nei giri di chi dell’arte fa posa e potere (D’Annunzio, Scarfoglio, la bohème milanese degli Scapigliati), si inoltra con cavalletti giganti su cui monta tele abnormi, perché della selva vuole la grandezza naturale – e la selva si fa belva mansueta davanti al suo pennello, si lascia ritrarre, lo cinge con le sue radici. E compie la sua seduzione.

 ”Perché di enigma si tratta (…) Guido è diverso e affascina proprio per questo: viaggia nella semplice ricerca della bellezza, quasi con l’urgenza indiscutibile di un dovere. (…) Perché un artista – che sia pittore, fotografo, attore o scrittore poco importa – ha sempre uno sguardo speciale, anzi bisogna proprio che ce l’abbia: deve essere spinto da una specie di follia amorosa per fare il suo lavoro. Alla base di ogni arte c’è questa fiamma negli occhi, questa capacità di credere nei propri occhi. Perché, se non si possiede questo fuoco amoroso, non si vede nulla”.

Il fatto è che Guido Boggiani corre veloce, e corre più in lungo. Più di quelli a cui dà fastidio, perché in piena stagione di darwinismo sociale e di pseudoscienza lombrosiana decide di intrattenere con le popolazioni autoctone un rapporto squisitamente umano, non giudicante e, al contrario, disposto all’apprendimento dell’altro. Più di quelli che vorrebbero decisamente toglierlo di mezzo, perché rispetto ai propri interessi di faccendieri, padroni e padroncini, tutto questo umanesimo geografico non è altro che un impedimento fastidioso, e pericoloso (metti mai che queste strampalate idee di rispetto e sacralità della natura non decidano anche di diffondersi…).
Ma corre più anche di quelli che provano per lui un affetto complicato. E così, per definirlo, queste voci sono pure difettose, testimonianze che portano sempre, dentro il loro racconto, la negazione di qualcosa che avrebbe potuto essere ma non è stato: Dolinda, la balia, è la non madre, Elvira la non amante, Paoletta la non fidanzata, Moysés il non figlio (e poi: Gianmaria il non amore, e George, il non compagno).

Non è possibile, del resto, fermare ciò che è lo spirito di Guido Boggiani (e per questo è ancora più apprezzabile che la sua testimonianza arrivi da buona ultima, mentre le parole dei suoi taccuini acquisiscono, capitolo dopo capitolo, la consistenza di una premonizione): nella foresta è diventato Patrão Boyani, ha deciso di appartenere anche alle genti che si muovono, ha appreso come si fa a muovere il mondo proprio da quegli indios che i suoi occhi non riescono a vedere con il cervello dei bianchi. 

La selva – il territorio senza legge, la prodigiosa riserva di alberi pregiati, il luogo del pericolo perenne, la terra dove tutto è guerra e la violenza infuria, il tempio dell’ultima sacralità – non è solo la quinta, ma è anche la trama che lega ognuna delle vite che si incrociano sotto il suo cielo. Suo è il mistero degli ultimi istanti della vita di Guido (che finisce, a dispetto di tutti, per appartenerle)

“Questa pianura infinita abbracciando il mondo suggerisce la terribile idea che tutto sia possibile”

Una parabola sull’insensata crudeltà degli uomini che non sanno, né possono reggere la sproporzione impetuosa della gentilezza d’animo.

Il libro di Laura Pariani, che ha di recente ricevuto il Premio Pavese per la narrativa, verrà presentato a Milano, mercoledì 15 novembre, alle 18, al Museo Morando per Bookcity.

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