La musica che gira intorno/ 41

In Musica

Pop, rock, progressive, blues, soul, funk, hip-hop, samba, noise, cumbia, psichedelia, jazz, classica: i nuovi album, le ristampe, gli eventi musicali significativi

GLI APPUNTAMENTI
– Modernariato progressive con i Marillion agli Arcimboldi mercoledì 4 ottobre, ore 21. A me non sono mai piaciuti, fate voi.
Ninos du Brasil al Serraglio, ore 22, giovedì 5. Sono in realtà veneti, Nico Vascellari (sì, lui, l’artista) e Nicolò Fortuni. Fanno una dance tribale e notturna, cupa, tra samba e noise, cumbia e synth psichedelici.
Cody ChesnuTT all’Arci Biko, ore 21.30, venerdì 6. Soul sporcato di funk e hip-hop, lui è un grande meno noto di quanto meriterebbe.
Wiener Philharmoniker alla Scala, ore 20, domenica 8. Musiche di Brahms, Haydn e Bartok, dirige Zubin Mehta.
Orchestra Antonio Vivaldi diretta da Lorenzo Passerini al Conservatorio Verdi, ore 20.30, lunedì 9. Musiche di Pergolesi.
– Il franco cacciatore di Weber alla Scala, ore 20, martedì 10. Dirige Myung-Whun Chung.

POP & ROCK
Randy Newman – The great debate/ Putin/ Lost without you/ She chose me/ Wandering boy/ Marie/ Guilty/ Rollin’/ In Germany before the war
A nove anni di distanza dal precedente Harps and angels, Randy Newman pubblica Dark matter (****1/2), undicesimo album della sua carriera da cantautore. Losangelino, classe 1943, Newman è noto al grande pubblico soprattutto come compositore di colonne sonore, attività che gli ha fatto avere ben quindici nomination e due vittorie agli Oscar: quella di Toy Story, con la canzone You’ve got a friend in me, è celeberrima. Musicista fra i miei prediletti da sempre, Newman è una sorta di nuovo Aaron Copland che usa nella sua tavolozza le mille suggestioni sonore americane. E, nei testi, un autore con molte frecce nel proprio arco, geniale nel fondere un’asciutta ferocia satirica (il Dio di God’s song che si chiede perché l’umanità lo adori con tutte le efferatezze a suo carico; il mercante di schiavi che invita gli africani catturati a venire a fare un bel viaggio con lui in Sail away; l’imperialista fanatico di Political science che si chiede perché il mondo – che andrebbe distrutto con l’eccezione dell’Australia perché “non vogliamo far male ai canguri” – disconosca la missione civilizzatrice dell’America) con una dolente vena sentimentale. Narratore obliquo, per il quale ciò che viene taciuto è importante quanto quel che viene rivelato, Newman è infine un grande cantore degli “american losers” (lo si ascolti in Marie, Guilty e Rollin’, capolavori dall’album Good old boys del 1974) e un toccante evocatore di “mostri” (In Germany before the war, del 1977, è una parafrasi di M, il mostro di Dusseldorf di Fritz Lang). Tutte le componenti del suo songwriting sono presenti nel nuovo album. A partire dall’operetta in miniatura The great debate, che dà sfogo al suo ateismo e ai suoi umori leftist mettendo a confronto scienziati, creazionisti e negatori del riscaldamento del pianeta. Satirica anche Putin, sulla seduttività machista che ostenta l’inquilino del Cremlino (doveva esserci anche What a dick, che tipo, ma anche “che cazzo”, con i versi non equivocabili “ce l’ho più grosso del vostro”, dedicata a Donald Trump e omessa all’ultimo minuto perché non oscurasse il resto dell’album). Pezzi minori e buffi come Brothers (John Kennedy che parla al fratello Bob, durante la crisi cubana, del suo amore per la cantante Celia Cruz), brani teneri con una punta aguzza come Sonny Boy (il bluesman Sonny Boy Williamson, ucciso e asceso in cielo, scopre che sulla terra gli hanno rubato il nome). E nuovi capitoli del suo intenso canzoniere d’amore (Lost without you, She chose me). Con un vertice, Wandering boy: durante un party, un padre ringrazia gli ospiti ma continua a pensare a uno dei figli, che non c’è. Non è morto, ma chissà dov’è, forse fra i tossici che si bucano là fuori…




Van Morrison – Transformation/ Goin’ to Chicago/ Fame/ Bring it on home to me/ Ordinary people/Stormy Monday
Trentasettesimo album di studio per Van “The Man” Morrison, il leone di Belfast. A un anno di distanza da Keep me singing, questo Roll with the punches (****) trasuda blues e soul. Composizioni originali degne della sua penna (Transformation, Fame, Ordinary people) e cover smaglianti di canzoni altrui (sentitelo come cesella Bring it on home to me di Sam Cooke, con che grinta affronta Goin’ to Chicago di Count Basie e Jimmy Rushing e Stormy Monday di T-Bone Walker). Nella tracklist del disco anche brani di Bo Diddley, Little Walter, Lightnin’ Hopkins e Sister Rosetta Tharpe. Ospiti di rango come il grande Jeff Beck alla chitarra, Georgie Fame all’organo e Chris Farlowe al canto.




Dream Syndicate – Filter me through you/ Out of my head/ 80 West/ The circle/ How did I find myself here?
E già, come hanno fatto a trovarsi qui, a trent’anni di distanza? Tornano i Dream Syndicate di Steve Wynn, alfieri del Paisley underground, la neopsichedelia californiana che negli anni ’80 rinverdì i fasti di Byrds, Grateful Dead e simili ibridandoli con il ghiaccio metropolitano dei Velvet e con il decò punk dei Television. Gran bel ritorno, questo How did I find myself here? (****). Con le furenti cavalcate chitarristiche alla Neil Young (Out of my head), con l’impeto di The circle, per me canzone rock dell’anno, con le scale modali alla Miles Davis e le armonie frantumate della titletrack, i Dream Syndicate danno la polvere a molte band giovanotte.


Gregg Allman – My only true friend/ Going going gone/ Black muddy river/ I love the life I live/ Willin’/ Song for Adam
Southern blood (****) è l’album postumo e forse il capolavoro solista del grande Gregg Allman (1947-2017), tastierista chitarrista e cantante degli Allman Brothers Band, la band portabandiera del rovente rock sudista. Una composizione originale, My only true friend, apre le danze con la dolcezza del soul e con i fiati in bella evidenza. Seguono belle e asciutte versioni di classici e di canzoni, forse laterali ma non per questo meno belle, che con il tempo abbiamo imparato ad amare: Once I was (Tim Buckley), Going going gone (Bob Dylan), Black muddy river (Grateful Dead), I love the life I live (Willie Dixon per Muddy Waters). Si chiude in bellezza con Song for Adam di Jackson Browne, anche ospite. Registrato a Muscle Shoals in Alabama, nei mitici Fame Studios, tempio della musica black, con Don Was produttore.




Joan Osborne – Tangled up in blue/ Rainy day women #12 & 35/ Tryin’to get to heaven/ Dark eyes/ High water (for Charley Patton)/ Ring them bells
Da dylaniato di lungo corso, noto con piacere che i tributi a mastro Bob di recente si sono moltiplicati. Soltanto negli ultimi mesi, ci sono state la magistrale rilettura roots di Blonde on blonde da parte degli Old Crow Medicine Show e la rivisitazione elettrica del repertorio acustico dylaniano dei ’60 da parte di Willie Nile. Terza ma ultima arriva la kentuckiana Joan Osborne con Songs of Bob Dylan (***1/2). Voce suggestiva che aggiorna la lezione delle grandi interpreti del nostro (Joan Baez e Judy Collins), arrangiamenti dal molto scarno a una full band di movenze quasi gospel. In repertorio, oltre a tanti brani classici (tre vengono da Blood on the track, il mio Dylan preferito), canzoni del nuovo millennio come l’intensa Tryin’ to get to heaven. Brava.

Ringo Starr – We’ re on the road again/ Show me the way/ King of the kingdom/ Shake it up/ Don’t pass me by
Rimpatriata a Los Angeles nello studio di registrazione privato di Ringo Starr, indimenticato batterista dei Beatles, che per festeggiare i 77 anni si regala un album, Give more love (***1/2). Sono della partita l’amico e sodale Paul McCartney, che per l’occasione torna a imbracciare il basso in due brani (We’re on the road again e Show me the way). E poi Joe Walsh degli Eagles, Dave Stewart degli Eurythmics, l’onnipresente produttore Don Was. Tra una ripresa dei Beatles (Don’t pass me by, uno dei pochi brani firmati da Ringo per i Fab Four) e una King of the kingdom che si diverte a citare il Bob Marley di One love, musica epidermica ma contagiosa, che fa simpatia.



Mauro Ermanno Giovanardi – Aspettando il sole/ Huomini/ Non è per sempre/ Baby dull/ Forma e sostanza
Che cosa resterà degli anni ’90? Mauro Ermanno Giovanardi per gli amici Jo, che ne fu protagonista con i Carnival of Fools e con gli straordinari La Crus, di quella magica stagione italiana tenta l’inventario con La mia generazione (****). Il rock italiano, che per tutti gli anni ’80 aveva biascicato l’inglese, nei ’90 si appropria dell’italiano, fa il salto quantico dai piccoli club ai palasport, dalla semiclandestinità indie alle classifiche. Senza diventare mainstream, senza semplificarsi o normalizzarsi più di tanto. I nomi? Massimo Volume, Afterhours, Csi, Subsonica, Marlene Kuntz, Ustmamò, Bluvertigo, Neffa. Ora, il ragazzo che era stato folgorato da Angela di Luigi Tenco, trovandolo fratello di Nick Cave, indovina, in un disco intenso e riuscito, l’istantanea dell’ultima rivoluzione musicale italiana. Ospiti per niente gratuiti e assai coinvolti Manuel Agnelli degli Afterhours, Rachele Bastreghi dei Baustelle, Emidio Clementi dei Massimo Volume, Cristiano Godano dei Marlene Kuntz e Samuel Romano dei Subsonica.



IL RECUPERO
Steve Winwood – I’m a man/ Can’t find my way home/ Dear Mr. Fantasy/ Gimme some lovin’/Glad/ John Barleycorn/ Back in the high life again
Che meraviglia, questo doppio Greatest hits live (****1/2) con cui Steve Winwood rilegge, in 23 gemme purissime, mezzo secolo di carriera. Come, non sapete chi è Stevie Winwood? È l’enfant prodige che a diciassette anni, nel 1965, con una voce nera e una vitalità prorompente anche come chitarrista e tastierista, porta lo Spencer Davis Group in cima alle classifiche con due canzoni scritte da lui, I’m a man e Gimme some lovin’, in seguito cavallo di battaglia dei Blues Brothers. Il diciannovenne che nel 1967 fonda i mitici Traffic, gruppo fra i più innovativi e raffinati di sempre del rock inglese. Che nello stesso anno dà vita, con Eric Clapton e Ginger Baker dei Cream e con Ric Grech dei Family, a uno dei primi supergruppi, i Blind Faith. Che nel 1976 prende parte, con Stomu Yamashta e Al Di Meola, all’avventura jazz-rock dei Go. Cantante sempre – e tuttora – incisivo, grande strumentista e compositore, finora Winwood non aveva mai inciso un disco dal vivo a suo nome: l’unico antecedente che ci si avvicina – a parte i live delle formazioni in cui ha militato – è lo splendido Live in Madison Square Garden del 2009 in coabitazione con Clapton. Ora rimedia ed è una festa da non perdere.






IL JAZZ
Zeno De Rossi – Baboo/ Marionette/ Catfight/Sleep talking/ In Germany before the war
Zeno De Rossi, veronese, classe 1970, miglior batterista 2011 per Musica Jazz, è poliedrico, oltre che nello stile, nelle collaborazioni: Enrico Rava e Franco D’Andrea, ma anche Vinicio Capossela e la band Guano Padano, per tacere dei numerosi progetti collaterali. Batterista melodico, più interessato a costruire frasi che a fornire un semplice supporto ritmico (ma ascoltatelo in Baboo) ordisce una musica di eccitante vivacità. Zenophilia (****) lo propone in trio assieme al sassofonista Piero Bittolo Bon e al giovane, notevole trombonista Filippo Vignato. Echi di Charlie Mingus e Ornette Coleman, pennellate New Orleans. In duo, De Rossi si confronta nell’intimista Sleep talking (****) con il bellissimo pianismo à la Paul Bley di Giorgio Pacorig. Grandi riletture di Ornette Coleman e Randy Newman.




LA CLASSICA
Elina Garanča interpreta Mascagni e altri
Mezzosoprano lettone, nata a Riga nel 1976, di estrazione belcantista, dal timbro scuro e rotondo, Elina Garanča possiede una voce espressiva e un’estrema duttilità. In Revive (****), assieme all’ Orquesta de la Comunidad Valenciana diretta da Roberto Abbado, affronta un pot pourri di arie che hanno per protagoniste donne forti in momenti difficili. A unirle il fil rouge della passione amorosa. Le musiche vanno da metà 800 a inizio 900. Si apre in chiave verista con la struggente Voi lo sapete o mamma (Mascagni, Cavalleria rusticana) e si prosegue con italiani e francesi. Scelte spesso inconsuete, nel catalogo Berlioz, Verdi, Saint Saens, Massenet e Ponchielli, Cilea, Mussorgski, Ambroise Thomas e Leoncavallo. Più di recente, Elina Garanča ha inciso anche un Sings Mozart & Vivaldi (***1/2) altrettanto inconsueto per le scelte, con arie da La clemenza di Tito, La finta giardiniera e Così fan tutte (Mozart) e da Bajazet (Vivaldi).