Il carcere chiede coraggio

In Letteratura, Weekend

Tre suicidi in un mese a Pavia. La spaventosa realtà del reparto psichiatrico a Torino. Non cambia mai il carcere? Può cambiare, scrive Luigi Pagano nel suo libro ‘Il direttore’ che racconta 40 anni di lavoro nelle prigioni. Può migliorare e molto – Bollate che ha fondato e che compie 20 anni lo dimostra – a patto si abbia la voglia e la fantasia del fare, qui e ora

La ‘domandina’, quel diminutivo quasi vezzoso che impone ai carcerati di richiedere l’autorizzazione per qualunque cosa, fosse pure la più banale: un mazzetto di prezzemolo, una testa d’aglio. Un pezzo di carta che impiega due giorni, cinque diversi uffici fra timbri, controlli, firme e controfirme, e non è detto che arrivi a destinazione perché molte misteriosamente si perdono. Luigi Pagano nel suo libro Il direttore Quarant’anni di lavoro in carcere (Zolfo editore) comincia a raccontare delle ‘domandine’ per dire dell’immutabilità del carcere. Da quel pianeta ci arrivano ogni giorno notizie e segnali controversi, agghiaccianti o incoraggianti. Tre suicidi in un mese nel carcere di Pavia. Le immagini del reparto psichiatrico del carcere di Torino, terrificanti. Ma anche i 20 anni dall’inaugurazione del carcere ‘modello’ di Bollate. O la ministra della Giustizia Marta Cartabia che cita ad esempio positivo il reparto La Nave di San Vittore, trattamento avanzato delle dipendenze.

Pagano ha attraversato tutto: il brutto (Pianosa, Badu ‘e Carros, San Vittore degli anni bui) cercando di migliorarlo, e il bello (Bollate e La Nave) creandolo dalle fondamenta. L’immutabilità del carcere, ciò che sopravvive a ogni cambiamento, e anche la sua sostanziale illegalità. Molte realtà carcerarie italiane, scrive Pagano, sono fuorilegge “se dobbiamo credere alla Costituzione del 1948, alla legge di riforma dell’ordinamento penitenziario varata nel 1975, al Comitato contro la tortura presso il Consiglio d’Europa che usò proprio quel termine tortura nella relazione sulla visita condotta a San Vittore nel 1992, nulla ottenendo, però, sino a che la Corte europea dei Diritti umani non condannò l’Italia per ‘trattamento inumano e degradante’ nei confronti delle persone detenute”. Ma in Italia ci si abitua a tutto, all’indignazione e allo scandalo, alle riforme non attuate, a quelle discusse e mai realizzate, perfino alle ‘domandine’ per comprare l’aglio.

Il libro di Pagano è una lettura importante, tanto mortificante quanto a tratti divertente negli aneddoti, perché lui è un uomo del tutto singolare, un gigante a dispetto della relativa stazza fisica. Avendo visto tutto, dalla criminalità organizzata ai lottarmatisti ai colletti bianchi di Mani pulite, ha messo a punto un approccio alla realtà carceraria che lo rende unico. Intanto, essendo napoletano, ha sempre guardato con disincantata umanità a quelli che incontrava. A San Vittore, ancora adesso, è rimasto una star per detenuti e agenti. Lui conosceva tutti, i loro problemi, le loro storie. Se c’era da esercitare l’autorità lo faceva, ma senza sfoggio di arroganza. Se c’era da smussare qualche angolo, prendendosene la responsabilità, non si tirava indietro. Non gli sono mai mancati né il coraggio né il senso dell’umorismo né la fantasia.

Ed è arrivato alla conclusione che nelle carceri italiane, più che i convegni o gli appelli, serve aver voglia di cambiare, perché molte cose si possono fare, come ama ripetere, ‘a legislazione invariata’. La base del suo ragionamento è che il carcere è spesso illegale, quando lede i diritti di chi va ritenuto innocente fino al giudizio definitivo, di chi non merita un trattamento disumano e degradante. È quasi sempre inutile, e dannoso se determina nuove ricadute nel crimine. Quindi è inutile chiedere e progettare nuove riforme? Per Pagano non è inutile. Ma è ancora più importante fare quel che è possibile per migliorarlo, ed è molto.
‘Bollate, l’invenzione di un carcere normale’ si intitola il capitolo che Pagano dedica al suo successo più grande, il carcere che diventa ‘modello’ in quanto ‘normale’, possibile, ‘a norma di legge’. Costruito “ispirandoci non a un modello astratto, ma alle regole dettate dall’ordinamento penitenziario che ritenevamo fossero, oltre che vigenti, ancora attuali. Nessun volo pindarico, nessuna astrazione, non cercavamo l’originalità, le fondamenta di quel carcere dovevano essere riprese dalle disposizioni fornite dalla legge, e se novità c’era la si doveva ritrovare nella determinazione con cui si decise di renderle concrete”. E allo stesso modo per la Nave. Un reparto avanzato per la cura delle dipendenze, gestito dalla Asst milanese Santi Paolo e Carlo, che l’anno prossimo compie vent’anni. Anche in questo caso, nessuna forzatura e nessuna nuova legge, solo il coraggio e la fantasia del voler fare.  

In apertura: foto di Tim Hüfner/Unsplash