Lo scrittore nella morsa del totalitarismo: un “Destino zoppo” firmato Strugackij

In Letteratura

Le contraddizioni di una società schiacciata, la creatività dentro la morsa del totalitarismo, la dubbiosa sopravvivenza della diversità: “Destino zoppo” è l’ultimo libro che i fratelli Arkadij e Boris Strugackij scrissero insieme. Oggi in italiano per Carbonio editore, il romanzo ambientato in una Mosca sommersa dalla neve, dove lo scrittore Feliks Sorokin riceve una convocazione dall’Unione degli scrittori sovietici: dovrà sottoporre un suo testo al vaglio di una nuova, prodigiosa macchina che stabilisce il valore oggettivo di un’opera letteraria. Sorokin si trova di fronte a un dilemma: portare alla commissione un testo mediocre che rientri nei canoni vigenti, o tirare fuori il suo manoscritto inedito, “Brutti cigni”, l’opera di una vita, rischiando così di finire nelle grinfie dei censori?

Quando all’inizio degli anni Ottanta scrissero Destino zoppo (che Carbonio Editore pubblica per la prima volta in Italia nella splendida traduzione della slavista Daniela Liberti), Arkadij e Boris Strugackij pensavano che non avrebbe mai superato la censura sovietica e, come il loro capolavoro La città condannata, lo destinarono al cassetto. In realtà entrambi i romanzi non vi rimasero molto e pochi anni dopo furono pubblicati, quando, con l’allentamento della censura all’epoca delle riforme di Gorbaciov, vennero stampate importantissime opere della letteratura russa del XX secolo, come Il Maestro e Margherita di Mihail Bulgakov, Vita e destino di Vasilij Grossman e Il dottor Zivago di Boris Pasternak.

Di cosa parla Destino zoppo, che i fratelli Strugackij considerarono così scomodo da preferire tenerlo nel cassetto? Nella postfazione, Boris Strugackij lo definisce «un romanzo sull’inesorabile avvicinarsi della vecchiaia, dalla quale non riceviamo né gioia, né salvezza». In Destino zoppo ci sono ex mogli ostili, lavelli pieni di piatti sporchi, colleghi che scocciano e che spettegolano, sbronze, sigarette e mal di testa. Se non fosse inconcepibile parlare di borghesia nell’Unione sovietica, saremmo tentati di definirlo, per l’ambientazione e il tipo di personaggi, il romanzo più borghese dei fratelli Strugackij.

La borghesia russa, come ceto e classe sociale, fu annientata dalla Rivoluzione d’ottobre e, non essendoci i presupposti per il suo ritorno (difesa dei diritti e delle libertà dei cittadini, riconoscimento della proprietà privata, economia di mercato, ecc.), nei settant’anni di vita dell’Unione sovietica non vi fu una classe sociale paragonabile a quella della borghesia. Nemmeno l’intelligencija, come ceto delle persone con un’istruzione superiore, può essere paragonata alla borghesia, perché senza mezzi economici e voci ufficiali, nonché esclusa dalla verticale di potere del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) e generalmente avversa al regime.
Anche oggi è difficile, se non impossibile, trovare una classe borghese nella Federazione Russa e negli altri stati nati dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Con l’esclusione delle repubbliche baltiche, che infatti sono entrate dell’Unione Europea, le altre ex repubbliche socialiste sovietiche sono delle cleptocrazie in cui la difesa dei diritti e delle libertà dei cittadini, il riconoscimento della proprietà privata e l’economia di mercato sono più accessori retorici che fondamento dello Stato. Inoltre, molte delle ex repubbliche socialiste sovietiche presentano il problema tipico della decolonizzazione moderna: l’indipendenza politica non è integrata nella decolonizzazione economica da Mosca, che non ne riconosce la sovranità attiva e che reagisce duramente ogni volta che provano a sganciarsi dalla sua egemonia: pensiamo all’Ucraina e alla Georgia (che nel 2008 ha perso due provincie e ha subito il bombardamento delle infrastrutture critiche).

Il problema di Destino zoppo, per lo meno nella prospettiva dei fratelli Strugackij degli inizi degli anni Ottanta, è che rispecchia questa condizione esistenziale nell’Unione Sovietica e rivela un mondo proletario e corroso dalla cronica mancanza di beni essenziali, un mondo maschilista e russo-centrico, un mondo governato dalla menzogna, dalla censura e dalla corruzione e popolato da sudditi che obbediscono a un governo interessato solo alla propria conservazione.

Nel saggio Russki mir: Guerra o Pace? (21 lettere, 2022), lo scrittore Mihail Šiškin spiega come, per l’altissimo numero di persone finite negli ingranaggi della macchina penale sovietica e russa, spesso solo per motivi politici o ideologici, molti tratti della cultura carceraria (omertà, corruzione, abuso del più forte sul più debole ecc.) abbiano informato la società sovietica e russa: «Il fenomeno dell’influenza della cultura carceraria sull’intera società è quello che i sociologi russi chiamano “carcerizzazione o prigionia” [prizonizacija, ndr], un termine unico che deriva dall’inglese prison e che suona assolutamente russo: pri zone significa “sulla zona”. L’intero Paese vive “sulla zona”.»

«Reticolati. Sono la prima cosa che si nota. Spuntano fuori dalla neve, innalzandosi sopra a linee, a mucchi, a siepi. Aggrovigliati nelle combinazioni più bislacche, in nodi, in matasse, in architetture che uniscono tra loro cielo e terra, i reticolati spuntano da ogni lembo di campo gelato, in mezzo al paesaggio candido e sullo sfondo dell’orizzonte glaciale. […] quei reticolati vogliono dirti qualcosa, ti mandano un messaggio. Dicono: “Attento, stai oltrepassando la frontiera di un altro mondo. Da qui non si esce, non si scappa […].”» Questa è la voce di Ryszard Kapuściński, che nel 1958 entra in treno nell’Unione Sovietica dalla Cina (in Imperium, Feltrinelli, 2022). E ancora: «Profumo di pane e filo spinato erano un unicum inscindibile, provai una struggente sensazione di essere a casa. “Eccola l’essenza sovietica, la sua sostanza”» (Sergej Lebedev, Gente d’agosto, Keller, 2022)

L’Unione Sovietica era uno sterminato carcere a cielo aperto e non solo per la chiusura delle sue frontiere, ma perché, come un frattale, riproduceva nella sua macrostruttura l’organizzazione criminale delle carceri che conteneva. Superando l’autorità dello Stato, il PCUS gestiva a propria discrezione le risorse materiali e i destini dei cittadini attraverso la rete dei Partiti Comunisti delle repubbliche socialiste sovietiche. La riforma più ambiziosa di Gorbaciov, quella di sottrarre il controllo dell’Unione Sovietica al politbjuro del PCUS e di rimetterlo al Soviet Supremo, fallì miseramente e molti degli Stati nati dalle ceneri dell’Unione Sovietica sono diventati feudi degli stessi membri del politbjuro dei tempi di Gorbaciov e delle loro combriccole (come nella Federazione Russa, in Kazakistan e in Turkmenistan), quando non sono rimasti nelle mani della stessa famiglia (pensiamo a Ilham Aliyev, che ha ereditato l’Azerbaigian dal padre Heydar).

Negli ultimi vent’anni il presidente della Federazione Russa Vladimir Putin ha ribadito più volte che la caduta dell’Unione Sovietica sia stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo. In una recente intervista rilasciata a questa testata, Marija Stepanova (tra i maggiori poeti viventi, edita in Italia da Bompiani) ha detto: «Potrebbe non ammetterlo, potrebbe anche non pensarlo, ma l’idea principale dietro questa guerra non è l’opposizione Russia – Ucraina o Russia – Occidente, è lo scontro dei secoli. Ciò che Putin vuole è trascinarci tutti indietro nel XX secolo. È spaventoso come questo tentativo di far tornare indietro l’orologio funzioni, perché la guerra in Ucraina, in un certo senso, ci ha portato a rivivere nel XX secolo.»

Se vogliamo capire, o ricordare, come fosse questo XX secolo che irrompe nel XXI con la distruzione di Mariupol’ e il massacro di Buča, dobbiamo leggere opere come Destino zoppo: perché la condizione esistenziale nell’Unione Sovietica è quella nella Federazione Russa.

(Visited 1 times, 1 visits today)