“La città condannata”: viaggio al termine dell’oscurità.

In Letteratura

Una rivolta, l’instaurazione di una dittatura e una missione da compiere nel libro scandaloso dei fratelli Strugackie: catabasi o catarsi, “La città condannata” racconta la storia di un Esperimento non meglio specificato, di esistenze al limite, di un tempo non definito. Ma alla fine (solo alla fine) il senso è compiuto.

«Reali, invece, erano le tenebre che già da dodici giorni incombevano sulla Città, reali erano le file davanti alle panetterie, reale era il sinistro risuonare di ruote traballanti sotto le finestre, e le piccole scintille delle sigarette fatte a mano che brillavano nel buio, e il sordo sferragliare metallico sotto i teli cerati delle kolymagi. Reale era la sparatoria, sebbene fino a ora nessuno sapesse chi stesse sparando e a chi…»


In un passo di 2666 Roberto Bolaño parla dei lettori che hanno una «preferenza netta, indiscussa, per l’opera minore [dei grandi maestri] a scapito dell’opera maggiore. [… alcuni lettori preferiscono non] cimentarsi con le grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire vie nell’ignoto. Scelgono gli esercizi perfetti dei grandi maestri. […] vogliono vedere i grandi maestri tirare di scherma in allenamento, ma non vogliono saperne dei combattimenti veri e propri, quando i grandi maestri lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore».
Ora, se c’è un’opera, non solo tra quelle dei fratelli Strugackie, ma tra tutta la produzione letteraria russa del XX secolo, che appartiene senza il minimo dubbio alle grandi opere, imperfette, torrenziali, in grado di aprire vie nell’ignoto, come Il dottor Živago di Boris Pasternak e Vita e destino di Vasilij Grossman, quella è La città condannata.


In quest’opera, magnificamente tradotta per la prima volta in italiano da Daniela Liberti e pubblicata da Carbonio Editore, i fratelli Strugackie «lottano contro quello che ci spaventa tutti, quello che atterrisce e sgomenta, e ci sono sangue e ferite mortali e fetore.»
I fratelli Strugackie lottano con noi, laddove con significa sia contro, sia insieme, come rivelano nella scena della partita a scacchi del protagonista, Andrej Voronin, contro il grande stratega:

«non vince affatto chi sa giocare seguendo le regole; vince chi è capace di ignorarle tutte al momento opportuno, di imporre al gioco le proprie, sconosciute all’avversario, e se ce ne fosse bisogno, di abbandonare anche queste. Chi ha detto che i propri pezzi sono meno pericolosi di quelli dell’avversario? Sciocchezze, i propri pezzi sono assai più pericolosi di
quelli dell’avversario. Chi ha detto che il re deve essere protetto e tolto da sotto scacco? Sciocchezze, non esistono re di questo tipo che, in caso di necessità, non possano essere sostituiti con un cavallo qualsiasi o con un pedone. Chi ha detto che il pedone, dopo essersi fatto strada fino all’ultima traversa orizzontale, sia obbligato a diventare un altro pezzo? È
ridicolo: a volte, è molto più utile farlo rimanere un pedone […] Andrej tracannò lo champagne avidamente e senza assaporarlo, e allora venne subito travolto da una folgorazione accecante. Ma certo, lui non era affatto un nemico del grande stratega! Ecco come stavano realmente le cose! Lui, Voronin, era il suo alleato, il suo fedele aiutante, queste erano le regole del gioco! Non stavano disputando una partita tra avversari, ma tra partner,
tra alleati, e l’azione si stava svolgendo verso una sola e unica porta: non perde nessuno, si vince soltanto… eccetto, certamente, quelli che non sopravviveranno fino alla vittoria…»


Anche nel romanzo non perde nessuno, si vince soltanto, ma per vincere bisogna arrivare vivi alla fine. Cosa che non è per niente facile. I fratelli Strugackie non si preoccupano di fare che quella Davide Brullo, in un recente articolo , chiama «letteratura buona, giusta e inclusiva», se ne fregano dell’approvazione morale del lettore e di aiutarlo a identificarsi con Voronin.
Hanno bisogno di soldati, non di benpensanti da poltrona.
Il mondo de La città condannata è un mondo miserabile e brutale. È un mondo maschilista fino all’assurdo, è un mondo senza bellezza e – per questo – senza senso.
È un mondo che i fratelli Strugackie non si danno nemmeno la pena di spiegare al lettore, che per farsene un’idea è costretto a carpire informazioni qua e là, senza però giungere mai alla piena
comprensione.
È in questo mondo che si conduce l’Esperimento, di cui non si sa nulla. Come non sappiamo dove ci troviamo, forse nemmeno sulla Terra.
Come quasi tutti gli abitanti di questo mondo, Voronin è arrivato come volontario per partecipare all’Esperimento.

Il romanzo comincia con il protagonista che carica bidoni della spazzatura sul camion e mentre è in fila per entrare nella discarica un’orda di babbuini, venuti da chissà dove, invade la Città.
La cifra dell’opera è chiara fin dall’inizio: fetore, sudiciume, assurdo. Nel mantenere quest’impostazione gli autori sfoggiano una coerenza d’acciaio e trascinano il lettore in un percorso oscuro dalle svolte imprevedibili (ci sarà una rivolta, l’instaurazione di una dittatura e una missione da compiere), fino a lasciarlo solo sull’orlo di una soglia, o di un abisso, immerso in un profumo di pulito, di sacro.
Solo allora il lettore capirà che i fratelli Strugackie sono stati una guida, come il Philip K. Dick de La trilogia di Valis , attraverso il fetore e la
violenza della Storia.


«Ogni mattoncino di questo tempio, ogni libro eterno, ogni melodia eterna, ogni forma architettonica irripetibile contiene compressa in sé l’intera esperienza di questa stessa umanità, i suoi pensieri e quelli che si hanno su di essa, le idee relative agli scopi e alle contraddizioni della sua esistenza; e non importa quanto possa sembrare isolato da tutti gli interessi immediati di questo branco di maiali [cioè l’umanità]– allo stesso tempo, il tempio è sempre inseparabile da tale branco e inconcepibile senza di esso […] io so con assoluta certezza che il tempio si sta costruendo, che, oltre questo, non succederà più nulla di serio nel corso della storia, che nella mia vita c’è soltanto uno scopo: proteggere questo tempio e aumentarne la ricchezza. Io, certamente, non sono né Omero né Puškin: non riuscirò a mettere neanche un mattone in quel muro. Ma io sono Katzmann! E questo tempio è dentro di me, e quindi anche io sono una parte di esso: significa che, con la coscienza che ho di me stesso, il tempio si è accresciuto ancora di un’altra anima umana. E questa è veramente una cosa meravigliosa».


Come ricorda la traduttrice Daniela Liberti, i fratelli Strugackie intendevano La città condannata come una parabola e quando composero il romanzo, tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo, non solo era impensabile pubblicare un’opera del genere in Unione sovietica, era anche pericoloso conservarne il manoscritto in casa.
Il romanzo fu pubblicato solo alla fine degli anni Ottanta all’epoca delle aperture gorbacioviane in un’Unione sovietica ormai agonizzante.
Il titolo del romanzo si ispira all’omonimo dipinto del 1914 di Nikolaj Rerih (ora in una collezione privata).
Il primo titolo era Io e mio fratello e, se da una parte rimanda al
complesso rapporto di amore e odio di Voronin con l’ebreo russo Izja Katzmann, dall’altra è un chiaro riferimento autobiografico.
Nell’opera infatti non mancano i richiami diretti alla vita dei due autori, come il racconto della loro esperienza durante i novecento giorni
dell’assedio di Leningrado tra il 1941 e il 1944:


«[c’era] solo un freddo terribile, atroce, e le persone congelate gridavano negli androni ghiacciati delle case – con voci sempre più flebili, e a lungo, per molte ore… [Voronin] Si addormentava ascoltando qualcuno che gridava, e si svegliava con lo stesso grido privo di speranza, e non poteva dire che fosse spaventoso, semmai disgustoso; e quando il mattino
coperto fino agli occhi, scendeva le scale inondate di merda congelata per andare a prendere l’acqua, tenendo per mano la madre, che intanto trascinava anche la slitta con un secchio legato sopra, l’uomo che aveva lanciato quelle grida giaceva ora là sotto, accanto alla tromba
dell’ascensore, probabilmente nello stesso posto in cui era caduto il giorno prima: sì, doveva essere così – non era riuscito più ad alzarsi e nemmeno a strisciare, e nessuno era uscito di casa per aiutarlo… […] Noi siamo sopravvissuti solo perché mia madre aveva l’abitudine di
comprare la legna all’inizio della primavera e non in estate. La legna ci ha salvati. E anche i gatti. […] l’autorità continuava a funzionare e la vita seguiva il suo corso – una vita strana e delirante. Qualcuno spirava in silenzio; qualcuno compiva gesta eroiche, per poi morire a sua
volta; qualcuno sgobbava in fabbrica ma, quando arrivava il suo momento, crepava lo stesso. Qualcuno, invece, speculava su tutto questo, e per un misero tozzo di pane si accaparrava oggetti preziosi, oro, perle, orecchini, e poi moriva anche lui – lo portavano giù, sulle rive della Neva, e gli sparavano, poi quelli risalivano senza guardare nessuno e si caricavano i fucili sulle loro schiene piatte… Qualcuno andava a caccia con l’ascia per i vicoli e si cibava di carne umana o ne faceva commercio, ma moriva ugualmente… In questa città non c’era nulla di più ordinario della morte. Eppure l’autorità funzionava ancora e, finché era così, la città rimaneva in piedi».

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