Ambiguità: tra desiderio e vergogna. Una (gran) intervista a Marija Stepanova, poeta.

In Interviste, Letteratura

A cosa servono i poeti? A vedere oltre le parole, a leggere la realtà attraverso le metafore e le negazioni, a ricordare che ciò che si pronuncia oggi è frutto di legami e di eredità. In questa intervista lo sguardo sottile e lucido di Marija Stepanova si confronta con il problema dell’identità, con i conti non fatti con gli anni Novanta, con la violenza di una lingua che designa e cancella, con il colonialismo interno e la propaganda nella Federazione Russa. L’Ucraina, la vergogna, la necessità della memoria.

«C’è sempre chi dice: spogliati
e mostra, togli e metti lì, stenditi
e allarga, fammi un po’ vedere,
sbottona, toccalo, hai visto?»


È ruvido ed esplicito l’incipit di Ragazze senza vestiti. Le Ragazze senza vestiti sono «un albero caduto […] con i folti rami rovesciati […] le bianche radici dalla terra ormai districate», come l’albero capovolto della qabbalah. Il corpo arboreo delle Ragazze senza vestiti è territorio dell’ambiguità, è nello stesso momento oggetto di desiderio e oggetto di vergogna.


«C’è sempre un cacciatore che desidera conoscere
c’è sempre uno spettatore che desidera guardare
[…]
Le ragazze senza vestiti quasi sempre
hanno vestiti che le rendono ancora più nude,
avvolgi intorno all’albero uno scialle
o una coperta, e il nudo legno dell’albero
(il nudo corpo del corpo) diverrà il luogo
della vergogna.»


Abbiamo incontrato Marija Stepanova in una diafana mattina invernale nella caffetteria del Wissenschaftkolleg zu Berlin, che fa parte del ristrettissimo club di centri di ricerca teorica fondati sul modello dell’Institute for Advanced Studies di Princeton. Stepanova è fellow del Wissenschaftkolleg e in ottima compagnia tra i fellows che l’hanno preceduta, tra cui si annoverano lo scrittore Stanisław Lem, la storica dell’arte Svetlana Alpers e lo storico Carlo Ginzburg.
Stepanova ha vinto i maggiori premi di poesia e letteratura europei e russi (tra cui il Pasternak nel 2005, il Big Moscow Score Prize nel 2009, il Bol’šaja Kniga nel 2018 e il NOS Award nel 2019).
Ragazze senza vestiti, insieme a Il corpo ritorna, Vestiti senza di noi, Spolia e La guerra delle bestie e degli animali fa parte di una raccolta uscita lo scorso settembre con Bompiani nella traduzione di Daniela Liberti e Alessandro Farsetti. Nel 2020 Bompiani ha pubblicato il personal essay Memoria della Memoria (traduzione di Emanuela Bonacorsi), che racconta la storia della sua famiglia attraverso il XX secolo e con cui Stepanova è arrivata tra i finalisti dell’edizione 2022 del Pushkin House Book Prize.
Stepanova dirige inoltre il sito culturale Colta che, per la sua posizione critica verso il Cremlino, è stato bandito dalla Federazione Russa nel repulisti generale dei media indipendenti dopo l’invasione russa dell’Ucraina del 24 febbraio 2022.

Torniamo a Ragazze senza vestiti. Se cercassimo una chiave di lettura dovremmo orientarci verso la qabbalah o verso l’ambiguità tra desiderio e vergogna?
L’immagine cabalistica significa molto per me, ma quello che conta davvero è l’ambiguità tra desiderio e vergogna. Si può leggere questa poesia come la semplice rappresentazione di un abuso, cosa che in qualche modo sarebbe anche giusta, ma i miei eroi e le mie eroine non sono solo oggetti, non sono solo vittime del desiderio di qualcun altro, sperimentano loro stessi il desiderio, anche se non hanno parole e immagini per esprimerlo. L’idea di vergogna è assolutamente centrale, perché la vergogna è transgenerazionale, non è solo sessuale ed è profondamente radicata nella memoria. Qualche anno fa ho tenuto all’Università Humboldt di Berlino un corso sulla
trasmissione della memoria familiare. Ho chiesto ai miei studenti, che formavano un gruppo molto eterogeneo e internazionale, di scrivere tre parole associate ai ricordi di famiglia. Il risultato è stato sorprendente, perché tra le varie parole scelte una tornava sempre: vergogna. La vergogna non appartiene solo all’Unione Sovietica o al blocco di Varsavia, la vergogna si porta con sé, è formativa. A volte è il sentimento che proviamo quando per la prima volta ci vediamo dall’esterno.

Un articolo sul problema del riconoscimento della sovranità dell’Ucraina, uscito su Colta nel 2014 all’indomani dell’invasione della Crimea da parte della Federazione Russa e firmato dallo storico ucraino Andrii Portnov (anche lui fellow del Wissenschaftkolleg), è tornato suo malgrado attualissimo. Nell’articolo Portnov sostiene che il riconoscimento della sovranità dell’Ucraina passi anche attraverso l’uso consapevole della lingua e fa l’esempio dell’espressione na Ukraine (in Ucraina), che i russi usano da secoli e che viene tutt’ora usata dai media russi statali, ma che identifica l’Ucraina come un semplice territorio e che è stata sostituita nei media russi indipendenti (ormai attivi solo fuori dai confini della Federazione Russa) da v Ukraine, espressione che invece riconosce il Paese come uno Stato
sovrano. Preferire v Ukraine al posto di na Ukraine è solo un capriccio grammaticale?

Anche prima che della guerra del 2014 la questione na Ukrainev Ukraine era un argomento doloroso, soprattutto per chi è stato abusato da quest’uso del linguaggio. Se la tua scelta di parole grammaticalmente corretta ferisce qualcuno, è il momento di ripensare la tua grammatica. Non dobbiamo stare con la lingua russa, ma con quelli che la parlano. Non mi riferisco solo all’Ucraina: nella storia di qualsiasi potenza coloniale o postcoloniale come la Russia ci sono lingue che sono state soppresse o ignorate. È ora di ascoltarle. Se le nostre regole linguistiche sono considerate opprimenti devono essere modificate: è un modo per gli ucraini e i bielorussi di rivendicare se
stessi e per noi è un’opportunità per cambiarci.

Caratteristiche coloniali non le ha solo il russo.
No. Esiste una correlazione tra una lingua e il suo passato coloniale. Lo definisco uno schema militare all’interno del corpo della lingua. Nel russo è molto visibile nella letteratura, per esempio nell’opera più importante della letteratura russa medievale, Il canto della schiera di Igor’, tanto bella che alcuni la considerano un apocrifo del XVII secolo, anche se, molto probabilmente, è autentica. È un poema militare, che fonde l’immaginario cristiano e quello pagano e racconta di Igor’ Svjatoslavič, principe della cittadina di Novhorod-Siverskyj [in Ucraina settentrionale, vicino al confine con la Federazione Russa, ndr]. Con il suo piccolo esercito Igor’ attacca i poloviciani [popolazione di origine turca allora stanziata nei territori a nord del Mar Nero, ndr] e dopo molte battaglie è sconfitto. I suoi soldati sono uccisi e Igor’ finisce prigioniero, ma poi riesce a evadere. Il canto si chiude con il suo ritorno non a Novhorod-Siverskyj, ma a Kyiv, che è un luogo unificante ed è considerata la madre delle città russe. L’autore trasforma una storia di fallimento e disperazione in un’immagine gloriosa di ritorno e trionfo militare. A seconda di come la descrivi, la perdita diventa guadagno, la sconfitta vittoria. Quando leggi il poema, dipende da te da che parte stare. L’ambiguità di pensiero de Il canto della schiera di Igor’ è un modello nella letteratura russa.

Quest’ambiguità non si riflette anche nel modo in cui l’Unione Sovietica pensava se stessa e la Federazione Russa pensa se stessa?
Nel XX secolo dovevi conoscere a memoria la linea del Partito e ripetere la storia nella versione approvata dallo Stato. Se lo Stato la rivedeva, dovevi cambiarla. Dovevi allo stesso tempo dimenticare e ricordare ed entrambe le cose erano necessarie per la tua sopravvivenza. Dopo il collasso dell’Unione Sovietica sono stati pubblicati moltissimi titoli di ricerca storica per il grande pubblico. Era una situazione paradossale, perché vivevamo in uno Stato che diventava sempre più opprimente, con i media indipendenti che venivano bloccati, ma allo stesso tempo avevamo una certa libertà di parola quando si trattava di pubblicazioni non giornalistiche, come ricerca storica e letteratura.

Quindi nella Federazione Russa è stato raggiunto almeno un consenso nel giudizio storico?
No. Quello che è generalmente approvato è che nella Grande guerra patriottica [nome con cui i russi chiamano la Seconda guerra mondiale, ndr] i nazisti erano i cattivi e noi agivamo dalla parte del bene, ma nella storia russa non c’è una narrazione condivisa da tutti. Anche la figura di Pietro il Grande è ancora selvaggiamente controversa: c’è chi ha sostenuto la sua decisione di occidentalizzare la Russia e chi ha detto di no, che avevamo una mentalità diversa e che sarebbe stata migliore un’evoluzione naturale. È una questione dolorosa e se ne discute ancora. Per non parlare della rivoluzione del 1917: ci sono ancora persone che stanno dalla parte dei Bianchi e
persone che stanno da quella dei Rossi.

Perché non esiste una versione della storia che soddisfi tutti?
I nazisti sono durati dodici anni, l’Unione Sovietica settanta. In Germania potevi essere carnefice, vittima o spettatore passivo. Nessun’altra possibilità. Per ogni persona che partecipava, il ruolo era chiaramente definito, ma durante i settant’anni di Unione Sovietica si passava da un ruolo all’altro: potevi essere carnefice, poi vittima, poi spettatore passivo e poi di nuovo carnefice e di nuovo vittima. Questa giostra di ruoli ha finito per rendere tutte le persone simultaneamente vittime e carnefici. Per questo noi russi siamo ambigui riguardo alla storia: tutti sono stati coinvolti in questo vergognoso processo di uccidere l’altro e salvare se stessi. La storia russa è un territorio di fantasmi che non se ne vanno. Abbiamo questa sensazione speciale per la Grande guerra patriottica, perché è l’unico punto della nostra storia in cui tutti o quasi sono d’accordo: è stato terribile, è stato incredibilmente difficile e abbiamo vinto e abbiamo aiutato salvare il mondo.
Questa narrazione è l’unica che definisce la nazione russa e lo Stato russo, ma ora viene abusata da Putin, che usa l’immagine della Grande guerra patriottica come fondamento della sua agenda.

Uno slogan apparso nella Federazione Russa qualche anno fa diceva: možem povtorit’ (possiamo farlo ancora). Allora nessuno poteva immaginare cosa volesse dire, lo capiamo oggi però.
Prima della guerra in Ucraina non significava niente. Era uno slogan superficiale che diceva che siamo ancora lo stesso grande e potente Paese capace di difendersi da qualsiasi nemico. La Grande guerra patriottica è stata presentata dai media statali come una narrazione di gloriosa vittoria, non di sofferenza, resistenza e poi vittoria. La parte tragica, quella della sofferenza e della sconfitta, è stata soppressa e la parte della vittoria e dell’ingresso nelle città straniere è stata gonfiata come un pallone.
Hanno deciso che devono ripeterlo e hanno un fondamento morale, perché è stato già fatto negli anni Quaranta. Questo è quello che Putin vuole, questo è il suo obiettivo principale. Potrebbe non ammetterlo, potrebbe anche non pensarlo, ma l’idea principale dietro questa guerra non è l’opposizione Russia – Ucraina o Russia – Occidente, è lo scontro dei secoli. Ciò che Putin vuole è trascinarci tutti indietro nel XX secolo. È spaventoso come questo tentativo di far tornare indietro l’orologio funzioni, perché la guerra in Ucraina, in un certo senso, ci ha portato a rivivere nel XX secolo. Dobbiamo resistere non solo sostenendo l’Ucraina, ma anche moralmente, per non ricadere in questo modello di pensiero arcaico e barbaro.

Dopo la Seconda guerra mondiale gli scrittori del Gruppo 47, che reinventarono il tedesco, evitavano le parole abusate dal regime nazista, come Heimat e Volk (patria, popolo). Ci sono nel russo parole che in futuro saranno proibite?
Dobbiamo considerare il problema da un altro punto di vista. Non mi sembra che l’attuale propaganda russa abbia inventato niente di nuovo, perché copia a piene mani da quella sovietica. La scelta delle parole è praticamente la stessa, come per l’espressione vragi naroda [nemici del popolo, ndr], che in realtà potremmo far risalire alla Rivoluzione Francese. Il russo è pieno fino all’orlo di piccoli modi di dire, di minuscole metafore belliche, come “urrà” che originariamente era un grido di battaglia. Le usiamo ignorando totalmente questo significato nascosto, che crediamo scomparso da secoli, ma è come camminare su un campo minato, la bomba può esplodere o no.
Questo vale non solo per il russo, ma ogni lingua con una lunga storia ha quest’attenzione per la distruzione, per l’aggressione e la violenza.

Chi reinventerà il russo?
Non credo che possa essere un processo collettivo e in realtà chi ha reinventato il tedesco non è stato il gruppo 47, ma il rumeno Paul Celan, che scriveva nella lingua dei suoi nemici, degli assassini dei suoi genitori. Quello di cui abbiamo bisogno è di un russo alternativo, di una lingua che si interroghi costantemente su se stessa. Dobbiamo essere molto consapevoli delle sue possibilità, dei suoi possibili lati oscuri, cosa che richiede una lettura attenta del proprio lavoro e di tutto ciò che è stato scritto in questa lingua in precedenza. Questa necessità diventa sempre più evidente.
Putin è arrivato al potere dieci anni dopo il collasso dell’Unione sovietica, alla fine degli anni Novanta. Non era detto che sarebbe finita così. Se c’è stato un momento in cui qualcosa poteva essere cambiato, è stato proprio negli anni Novanta, ma non abbiamo sfruttato la nostra occasione. L’errore che abbiamo commesso è stato quello di non parlare gli uni con gli altri, di non riconoscerci gli uni gli altri ed è finito per diventare terreno fertile per la polarizzazione che ha permesso a Putin di andare avanti per più di vent’anni.
Quello che sa fare benissimo è polarizzare le persone alienate facendole abusare l’una dell’altra: gli occidentalizzati da una parte e le persone normali dall’altra, i provinciali ignoranti e le élites di Mosca e San Pietroburgo. Queste definizioni non funzionano, non spiegano tutto, non tengono tutto, ma la polarizzazione, questa immagine di due strati sociali che abusano costantemente l’uno dell’altro e che è pura invenzione, ha avuto e ha ancora successo.

Come sono stati per lei gli anni Novanta?
Vengo dallo strato dell’intelligencija più basso, non dalle classi privilegiate: mio padre faceva il fotografo, mia madre era ingegnere. Odiavamo l’Unione Sovietica, il Partito e la propaganda e leggevamo libri proibiti (una buona metà della nostra biblioteca era costituita da libri proibiti). Abbiamo festeggiato tutti i cambiamenti: la perestrojka, la glasnost’ e la caduta dell’Unione Sovietica. Ma mentre gioivamo per la libertà di parola, i miei genitori hanno perso il loro posto nella vita: mia madre è stata licenziata e l’istituto dove ha lavorato trent’anni è stato chiuso, mio padre ha dovuto fare due o tre lavori. Erano così presi a trovare un modo per andare avanti, che nemmeno si sono accorti dell’ambiguità e della scissione tra la gioia e l’odio, tra le idee e le aspettative per il futuro e la perdita di tutte le speranze. I miei genitori sono emigrati, mentre io, che allora avevo vent’anni, ho deciso di restare.

Uno degli obiettivi dichiarati della guerra è quello di denazificare l’Ucraina. In Europa il termine “nazista” evoca soprattutto la shoah. Nella Federazione Russa è invece legato più al concetto di “nazionalista”?
In Russia “nazista” significa semplicemente “cattivo” e non contiene nessun riferimento alla shoah o al nazionalismo. Ai tempi sovietici tutto era bianco o nero e chiaramente definito. Quando si giocava in cortile, si giocava alla guerra: c’erano “noi” e i fascisti. Nella mente russa, il nazismo è qualcosa di totalmente indefinito associato al male. Non si tratta di scelte politiche, i nazisti sono semplicemente i “cattivi”. Questo rende le cose più facili, perché quando chiami qualcuno nazista non hai bisogno di dimostrare il tuo punto, lo dici e basta. Sono nata nel 1972, erano passati meno di trent’anni dalla guerra, e quando andavo a scuola i veterani venivano in classe a raccontare la loro storie. Si parlava delle vittime della Grande guerra patriottica, ma nessuno specificava le diverse tipologie di vittime. A Babyn Jar [fossato vicino Kyiv dove tra il 29 e il 30 settembre 1941 furono massacrati circa trentaquattromila ebrei ndr] c’era un memoriale che commemorava le vittime senza dire che erano ebree. Perché erano ebrei e non avevano nazionalità. Nell’Unione Sovietica le nazionalità non russe erano riconosciute, mentre quella russa si confondeva con l’Unione sovietica.
Cosa ti definisce russo? Come dovresti descriverti se sei così grande e se sei ovunque? Non hai idea, nessuna spiegazione e nessuna voglia di essere russo. Ti era permesso essere ucraino, tataro o bielorusso, ma in un modo altamente ideologico e paralizzato. Quello che ti definiva russo non è mai stato chiarito. Le altre nazionalità si definiscono localmente usando la Russia come esempio negativo. Vogliono essere il più diverse possibile da noi. Noi non abbiamo nessun esempio, negativo o positivo. È difficile rinnegare noi stessi, scappare da noi stessi. Questo è un problema enorme: morale, geografico, storico, filosofico. Non c’è da stupirsi che in Russia la società civile non funzioni.

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