Carmen Schabracq, le radici arcaiche che smontano l’odio

In Arte

Nella sede milanese di Red Lab Gallery fino al 15 novembre è in corso la mostra “The mothers I wear” di Carmen Schabracq, artista olandese al suo debutto italiano. Una mostra che esplora identità, genealogia e memoria incarnata attraverso opere recenti e nuove produzioni. A cura di Leonardo Regano, il progetto intreccia poesia e arti visive, trasformando l’eredità in forza vitale. Maschere, costumi e ritualità popolari diventano strumenti di indagine della maternità, della metamorfosi e della memoria come archivio vivente. Tra pittura, ceramica, tessile e performance, Schabracq rende visibile una genealogia femminile collettiva, dove il corpo si fa pelle sensibile, canto, trasformazione. Le sue opere non rappresentano, ma generano.

Maschere, costumi, arazzi, disegni, ceramiche: l’universo di Carmen Schabracq sembra uscito da una fiaba arcaica, eppure parla del presente con una chiarezza disarmante. Alla Red Lab Gallery di Milano l’artista olandese debutta in italia con The Mothers I Wear, una mostra che intreccia genealogia e memoria, maternità e responsabilità collettiva. Non un museo di reliquie, ma un archivio vivo in cui il corpo diventa “pelle che trattiene storie”.

© Carmen Schabracq, Golden-horns (2025). Courtesy l’artista e Red Lab Gallery


Schabracq costruisce un linguaggio visivo che mescola l’immaginario popolare dell’Europa dell’Est — il foulard della nonna, i riccioli d’oro che spuntano sotto la stoffa — con simboli più arcaici e interiori: il nascituro che emerge dal grembo in un arazzo carico di luce, o il volto nascosto dietro una maschera di lana intrecciata. Il suo lavoro si muove su due piani: quello materiale, popolare e artigianale, dove il gesto manuale custodisce memoria, e quello simbolico, che attinge all’inconscio collettivo di ascendenza junghiana. Ma il centro emotivo e politico della mostra è altrove: nella consapevolezza che le origini non sono mai pure, mai monolitiche, ma sempre commiste. Noi siamo incroci, migrazioni, contaminazioni. In questo senso, The Mothers I Wear è una dichiarazione contro ogni liturgia identitaria: la genealogia come argomento contro chi divide, separa, semplifica. Se ogni corpo porta in sé tracce molteplici di provenienze e antenati, allora l’idea stessa di “purezza” etnica perde ogni fondamento — empirico, morale e umano.

© Carmen Schabracq, Ring of Fire (2024). Courtesy l’artista e Red Lab Gallery


C’è in tutto ciò anche una chiave psicologica, che Schabracq sembra evocare senza mai dichiararla. La disumanizzazione dell’altro — quel processo che rende possibile la violenza — è un meccanismo che Albert Bandura definiva moral disengagement: la sospensione della coscienza morale attraverso linguaggi e giustificazioni collettive. E allora l’arte, in questo caso, diventa un atto etico prima ancora che estetico: ri-umanizzare significa ricollegare le storie, restituire spessore alle relazioni, impedire la neutralizzazione morale dell’altro. Il salto dal simbolo all’attualità è inevitabile. Nelle opere di Schabracq si avverte lo smarrimento morale che attraversa i conflitti contemporanei — in primo luogo quello, atroce, in corso nella Striscia di Gaza — dove la cancellazione dell’altro è diventata un gesto politico e linguistico prima ancora che militare. L’artista non offre risposte, ma apre uno spazio di riflessione: quando la realtà si chiude in logiche di sopraffazione, anche l’immaginario deve reagire e ricucire.

© Carmen Schabracq, Ex-voto II , ceramic masks 19×12 (2024). Courtesy l’artista e Red Lab Gallery


Ed è proprio qui che The Mothers I Wear colpisce: parla alla pancia e al pensiero. I costumi popolari radicano lo sguardo in figure familiari, mentre arazzi e maschere — veri e propri oggetti performativi — aprono alla riflessione simbolica. Non commuovono soltanto: mettono in moto un cortocircuito etico. Riconoscere la propria mescolanza storica significa, in fondo, impedire che il “nemico” diventi disumano.
In un tempo che semplifica tutto, la mostra di Carmen Schabracq ci ricorda che la memoria può essere un atto politico. Tessuti, fili, volti coperti e scoperti diventano piccole forme di resistenza, antidoti contro la violenza dell’oblio. Per chi cerca nell’arte non solo emozione ma strumenti per ripensare responsabilità e solidarietà, The Mothers I Wear è un passaggio necessario — un luogo in cui guardare il mondo senza più distogliere lo sguardo.

Carmen Schabracq, The Mothers I Wear, Red Lab Gallery, Milano, fino al 15 novembre 2025

In copertina: © Carmen Schabracq, When Roots Start Riding Horses (2024). Courtesy l’artista e Red Lab Gallery

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