Viviamo in un’epoca che trasforma ogni tragedia in notizia, ogni notizia in intrattenimento, ogni immagine in consumo. E i potenti lo sanno: il potere oggi si legittima attraverso la sua estetica. È qui che l’arte, quella vera, si fa necessaria. Non per consolare, non per celebrare, ma per restituire densità al mondo. Le riflessioni di Efisio Carbone, curatore e critico da sempre attento e sensibile alle tematiche sociali, Funzionario Direttore del Polo museale ISRE di Nuoro e Direttore Onorario della Fondazione MACC di Calasetta, dove nel 2022 ha curato la collettiva “Dolce è la guerra per chi non l’ha vissuta”.
Oggi si celebra la pace. Le telecamere indugiano sui sorrisi dei leader, sugli abbracci calcolati, sui mezzi che riportano a casa gli ostaggi israeliani e palestinesi. C’è un’aria di sollievo globale, un ritmo caotico ma televisivo che invita a respirare insieme, come se la parola “fine” potesse bastare a chiudere quasi un secolo di dolore. Eppure, nel fondo di questa coreografia, resta qualcosa di stonato: un silenzio che pesa più delle parole pronunciate. È il silenzio dei morti, di quelli restituiti e di quelli dispersi, delle case polverizzate, delle generazioni perdute. È la voce di chi non può più essere spettatore, e non può più parlare. La pace, quando arriva in questo modo, è spesso una forma raffinata di invito all’oblio.

Viviamo in un’epoca che trasforma ogni tragedia in notizia, ogni notizia in intrattenimento, ogni immagine in consumo. Il genocidio stesso, parola troppo grande per gli schermi piccoli che lo raccontano, si trasforma in flusso: un dolore che non si deposita, che passa, che scorre accanto alle pubblicità, ai meme, ai selfie. Il male, per essere tollerabile, deve diventare fotogenico. E i potenti lo sanno: il potere oggi si legittima attraverso la sua estetica. Davanti ai fotografi, l’orrore si dissolve nell’immagine della riconciliazione. Il mondo applaude la pace, ma non ascolta le voci che non sono entrate nel frame. Si dimentica che anche la pace può essere un dispositivo di cancellazione.

È qui che l’arte, quella vera, si fa necessaria. Non per consolare, non per celebrare, ma per restituire densità al mondo. L’arte non è mai pacifica: è l’esatto contrario della pace spettacolare. È un gesto di disobbedienza percettiva, un atto che interrompe la coreografia dell’indifferenza. Dove la politica costruisce narrazioni lineari, l’arte introduce fratture. Dove la propaganda ordina, l’arte confonde, costringe a vedere. Il suo compito non è dire la verità, ma renderla inaggirabile.

Ci sono artisti che hanno capito questo da tempo, e lavorano nei luoghi in cui la sensibilità è più difficile. Zehra Doğan, che ha dipinto con la ruggine e con il sangue in un carcere turco, ha mostrato che anche nella detenzione più estrema la creazione è un atto di libertà. Kader Attia, che parla di riparazione attraverso le ferite, ci insegna che la bellezza non è perfezione, ma memoria della lacerazione. Forensic Architecture o Lawrence Abu Hamdan ricostruiscono il suono di un bombardamento, la traiettoria di un proiettile, per restituire giustizia a chi non ha più voce. E gli artisti di Gaza — quelli che non hanno né gallerie né elettricità — continuano a disegnare su sacchi di farina, a scolpire nel cemento, a dipingere sulle rovine, perché ogni segno è una forma di resistenza. Prova di resistenza è anche il vuoto di Ruth Patir alla Biennale di Venezia del 2024 che ha scelto come mezzo nessun mezzo, un luogo chiuso e paralizzato. Per molti artisti non è sempre possibile “schierarsi” in maniera netta, specie quando l’artista è dentro la comunità che soffre e dentro la comunità che ha responsabilità politiche. La forza di alcune pratiche sta proprio nella dissonanza interna: non contro lo stato come entità astratta, ma contro le politiche che producono il danno, dentro uno spazio comune che è già spaccato.

Ciò che unisce queste esperienze non è l’ideologia, ma la lotta contro l’anestesia. Viviamo in una civiltà che ha confuso la pace con la perdita di sensibilità. Abbiamo smesso di sentire il dolore degli altri perché il dolore ci disturba, e perché la macchina del mondo ha bisogno che restiamo produttivi, connessi, rassicurati. Le immagini di bambini sepolti, di corpi estratti, di file di sfollati, di famiglie disperate, scorrono nei nostri feed come note di passaggio: scorrono, non restano. L’arte deve essere ciò che rallenta, che impedisce allo sguardo di defluire. L’arte è un freno morale.

Forse oggi l’artista è l’ultimo sacerdote laico della sensibilità, colui che veglia sulle macerie del significato. Non per predicare, ma per custodire la capacità di provare empatia quando tutto ci spinge a non provarla più. Nelle sue mani l’immagine non è decorazione, ma testimonianza: un oggetto che brucia, che chiede attenzione, che non permette la distanza. Ogni opera autentica è una bomba contro l’indifferenza. Non esplode con il rumore, ma con la persistenza. Rimane impressa, come una ferita che non si chiude. Oggi si festeggia la fine delle bombe, ma la pace non è un evento: è una pratica del sentire. E finché il dolore dell’altro non sarà percepito come parte del nostro stesso corpo, nessun trattato potrà dirsi compiuto. L’arte, allora, non è un ornamento della pace: è la sua prova. È ciò che impedisce alla pace di diventare un anestetico. L’artista, in questo senso, è un medico del mondo: non guarisce, ma diagnostica; non cancella, ma mostra dove la pelle non ha ancora imparato a rimarginarsi.

La vera sfida del nostro tempo non è rappresentare il dolore, ma umanizzare il disumanizzato. E questo non avviene attraverso la compassione spettacolare, ma attraverso la costruzione di spazi di presenza. Un corpo disegnato con la polvere, un oggetto riparato, una voce che racconta, una pietra che ricorda — sono gesti minuscoli, ma in essi pulsa la possibilità di una nuova coscienza. Quando l’arte restituisce a un volto la sua opacità, quando si rifiuta di renderlo trasparente e consumabile, sta compiendo un atto politico più profondo di qualsiasi discorso. La propaganda globale continuerà a sorridere, a parlare di futuro, a firmare accordi. Ma l’arte autentica continuerà a essere un disturbo, un’increspatura nella superficie del consenso. Continuerà a ricordarci che il mondo non è interamente risolto, che la sofferenza non è statistica, che la pace non è spettacolo. Continuerà, ostinatamente, a rendere umano ciò che il potere preferisce inumano.

E forse è proprio questo, oggi, il nostro unico modo di resistere: restare sensibili in un’epoca che ci vuole anestetizzati. Guardare ancora, anche quando guardare fa male. Restare umani, anche quando l’umanità sembra un lusso. L’arte non ci salverà — ma ci impedirà di smettere di sentire, e questo, a volte, è già una forma di salvezza.
In copertina: Lawrence Abu Hamdan, Air Conditioning, 2022, dettaglio. Collezione Mudam Luxemburg