Più che un articolo, un saggio breve, quello che Vittoria Caprotti ci regala con le riflessioni scaturite da e su “Portraits of Inequalities. Pittura di classe”, mostra inserita nella 24ª Esposizione Internazionale della Triennale di Milano, “Inequalities”, in corso fino al 9 novembre 2025. Passando per derbycidio, genocidio e conformismo, Pasolini, Rino Gaetano, Francesco Arcangeli e Giorgio Manganelli, e via ragionando. Con il denominatore comune dell’impegno e della brutale onestà di fronte alle responsabilità etiche e morali che la Storia ci impone di affrontare. A viso aperto, facendo i nomi.
I.
Ho ripreso in mano questo pezzo nell’autunno 2025 dopo mesi di abbandono. L’avevo scritto a maggio – nei giorni che separavano il ritorno di semifinale di Champions League dalla finale – e sarebbe dovuto uscire in quel periodo; poi, però, così non è stato e ora mi tocca rileggermi e verificarmi. Nel rileggermi e verificarmi, ho cassato i riferimenti al ritorno di semifinale, Inter-Barcellona, ben conscia ormai di cosa c’è stato dopo, in finale. Nel rileggermi e verificarmi, ho realizzato quante cose siano successe da maggio a oggi.

II.
Beppe Viola coniò il termine “derbycidio” per riferirsi alla noiosissima partita che Inter e Milan disputarono il 29 marzo 1977 e la sola esistenza di questa parola dimostra come a Milano – e in ogni altra città che goda del privilegio di avere una sfida stracittadina – il derby sia una cosa più che seria. Piaccia o non piaccia, il derby della Madonnina è un’istituzione. Nella scorsa stagione l’Inter, la mia squadra, come si dev’essere già capito, non ne ha vinto nessuno e dopo il primo dell’annata calcistica – perso 2 a 1 – mi ritrovai a scrivere (mi è testimone l’archivio delle storie di Instagram) che ci meritavamo un ritratto di gruppo da esporre alla Ca’ Granda, perché un’operazione di munificenza a favore degli indigenti – i milanisti, ovvio – come quella che avevamo inscenato quella sera non si vedeva da tempo in città.

III.
Al numero 28 di via Francesco Sforza, a Milano, ha sede la Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico. Appena dentro il palazzo dove questa sta, svoltando a sinistra si arriva ai “Tesori della Ca’ Granda”, lo spazio espositivo in cui, oltre a strumenti medico-chirurgici, flaconcini e manualetti, sono esposti i ritratti dei benefattori della Ca’ Granda, un’altra istituzione storica milanese, come il derby (e il Derby, il locale, giusto per rimanere nei territori di Beppe Viola). Dal 1602 a oggi sono stati più di 900 i meneghini ritratti – da pittori più o meno noti, più o meno capaci – per celebrare le loro generose elargizioni all’ospedale cittadino, elargizioni che hanno reso possibile curare anche chi i soldi per pagarsi i trattamenti non li aveva.
Quando visitai lo spazio a maggio, con uno dei volontari del Touring – sono loro a tenere aperto lo spazio – mi misi a parlare della 24ª Esposizione Internazionale della Triennale di Milano che aveva da poco inaugurato. Lì, infatti, nell’Impluvium – uno degli ambienti del primo piano del Palazzo dell’Arte – sono attualmente esposti numerosi quadri provenienti dalla collezione della Ca’ Granda, anche se lui sembrava non esserne al corrente. Dalle poche foto che avevo allora e che tuttora ho visto in giro, Portraits of Inequalities. Pittura di classe – questo il nome della mostra, con “Inequalities” che è il titolo dell’intero progetto della 24ª Esposizione – presenta un confronto/contrasto tra questa pletora di facoltosi e facoltose e un poveraccio dipinto da Giacomo Ceruti, noto anche come Pitocchetto, dato che ritrasse, appunto, molti pitocchi. Testori – che nel 1981 curò una mostra dedicata proprio alla Ca’ Granda – lo definì “l’Omero dei diseredati”.

IV.
Oltre a me, è interista anche Stefano Boeri, il presidente di Triennale Milano che, insieme all’istituzione stessa, in quei primi giorni di Esposizione ricevette molte critiche per l’art-washing messo in atto nel parlare di Gaza. Attraverso 471 days, un’installazione di Filippo Teoldi, il genocidio in corso nella Striscia – ora riconosciuto come tale anche da una commissione delle Nazioni Unite – viene definito “catastrofe umanitaria” e la miriade di gente ammazzata dalle IDF e dai coloni è semplicemente “morta”. Inoltre, tra i partner del grande progetto espositivo figurano aziende direttamente legate al mondo politico-militare israeliano. Su Instagram, @galassia.anti3ioni3ta ancora ad agosto ha dato conto di azioni di boicottaggio nei confronti della Triennale, ma ho l’impressione che siano tra i pochi che continuano a battere il chiodo (specificando peraltro che “dopo mesi di campagne e pressioni, Triennale non ha ancora risposto alle nostre azioni e richieste”). Se sulla Triennale sembra essere calato il silenzio, qualche km più a sud, invece, il MAXXI di Roma è costantemente, apertamente messo sotto accusa a causa dei suoi evidenti legami con aziende produttrici di armamenti, venduti anche a Israele.

V.
“Dico che la contestazione globale, e in primo luogo io odio il concetto di contestazione globale e riconosco soltanto le contestazioni parziali… Le contestazioni globali, dicevo, son buoni tutti di farle e sono un terribile alibi di fronte alla propria coscienza. Con la contestazione parziale, invece, bisogna pagare di persona e affrontare la persona a, b, c, d, e, f”, disse una volta Francesco Arcangeli. Per pigrizia, per disillusione, per ignoranza, sono d’accordo con questa insofferenza nei confronti delle contestazioni globali, contro il Sistema in quanto tale, che non si capisce mai bene come abbatterlo. Sono d’accordo, perché l’unica, vera soluzione alle contestazioni globali, se si decide di aderirvi – appunto, in modo filologico – globalmente, è il nulla, è l’auto-ostracismo, e non vedo nessuno, né ora né ai tempi di Arcangeli, farlo. Sono d’accordo e la mostra nell’Impluvium vorrei tanto vederla, eppure non sto riuscendo a entrare in Triennale.
Per pigrizia, per disillusione, per ignoranza, mi ritrovo spesso ad accettare situazioni sibilline dalle quali esco scrollando le spalle e dicendo ai miei amici che, semplicemente, vorrei avere una bussola etico-morale migliore di quella di cui, ahimè, sono dotata. So bene, io, per me e con me, quali sono le mie idee e le mie posizioni. “Non aveva la tessera del Partito Comunista né aveva militato nella sinistra extraparlamentare, non si era mai intruppato nelle file dei cantautori impegnati e aveva avuto un successo minore rispetto ai Venditti, ai Dalla e ai De Gregori. Questo lo rendeva un soggetto bene incastrabile nelle griglie mentali di Colle Oppio”, ha scritto Stefano Cappellini nella sua newsletter Hanno tutti ragione del 16 maggio di quest’anno. Purtroppo per me, io non sono Rino Gaetano, ma come lui nemmeno io ho mai militato in certi ambienti della sinistra più radicale e come lui questo ha portato molta gente a fraintendere le mie posizioni. O forse mi sto autoassolvendo e dovrei iniziare a militare. Mi hanno fraintesa a destra (dove ho conoscenti) e a sinistra (dove ho Amici con la A maiuscola), ed è quantomeno sconsolante essere circondata da idealisti pseudo-comunisti a cui voglio molto bene e che, nonostante tutto, conservano una certa dose di fiducia nel progresso socio-politico. Il progressismo vince sempre, sul lungo periodo, e menomale, ma io sono sempre quella che di tanto in tanto ricorda a tutti, alzando un dito dalle retrovie, che, però, l’essere umano, per certi versi, non cambia mai: il progressismo vince nei grandi numeri, ma c’è sempre anche chi, dall’altro lato, non molla e all’occasione sgancia le bombe o dà del frocio a qualcuno. È il banalissimo motivo per cui i classici della letteratura moderna e i filosofi antichi funzionano pure oggi: si stava sempre meglio prima anche se non è mai vero, c’è sempre qualcuno che si lamenta, c’è sempre una guerra, un omicidio, uno stronzo, anche se nel frattempo, per fortuna, i miei amici gay possono unirsi civilmente e io posso depositare il mio testamento biologico negli uffici comunali. Perché il progressismo vince sempre, alla lunga, nei grandi numeri, anche se gli esseri umani fanno sempre un po’ schifo – ci disegnano così.
Lo spiega bene, in modo facile facile, Bersani (Pier Luigi, non Samuele) nel film-documentario “Io, noi e Gaber”, commentando la canzone “La mia generazione ha perso”: “Il cambiamento c’è stato sì o no? Sì, c’è stato. L’Italia di prima ce la ricordiamo sì o no? Ce la ricordiamo, e questo deve essere riconosciuto, perché sennò viene fuori l’idea che allora non può.. non può mai succedere niente, e no eh… Ripeto: l’origine è come dimensioni le aspettative, cosa ti aspetti… Non è la prima volta che le utopie portano a sensazioni di fallimento. Anche dopo le rivoluzioni, è l’idea che dovesse venir fuori un uomo nuovo e la disillusione…”: l’uomo nuovo non arriva mai, perché altrimenti smetterebbe di essere se stesso. Cambiano, però, le cose attorno all’essere umano, riuscendo almeno un po’ a condizionarne e direzionarne alcuni suoi rappresentanti.

VI.
Un giorno di novembre o dicembre 2023, quando il 7 ottobre era ancora bello fresco, andai a vedere “La leggenda del santo bevitore” al Teatro Franco Parenti di Milano, della cui direttrice, Andrée Ruth Shammah, sono ben note le posizioni sioniste – pur con certi tentativi recenti di dimostrarsi più moderata e pacata (e chi sono io per impedire a qualcuno di pentirsi e cambiare idea?). Una battuta che feci all’epoca, nell’inverno del ’23, (dissi che Shammah aveva imbroccato l’unico modo per tenermi nel pubblico, nonostante le sue uscite filoisraeliane, cioè piazzare bei ragazzi – ricciolini, castani, pallidi – come maschere in sala); la mia battuta aprì un’arcangeliana “contestazione parziale”, leggasi: una discussione, con una persona evidentemente solidale con Shammah e Israele. Quando, poi, un anno dopo, questa stessa persona mi riscrisse, senza che nessuno dei due avesse cambiato la propria posizione nel mentre, risposi ai suoi messaggi superficialmente distensivi senza troppe remore. La mia bussola etico-morale non funziona: non ho boicottato il Parenti, ho addirittura ceduto alla richiesta di un cessate il fuoco da parte di un filoisraeliano, eppure non sto riuscendo a entrare in Triennale.

VII.
Il poveraccio dipinto da Ceruti ora esposto in “Portraits of Inequalities. Pittura di classe” indossa abiti logori, ha la barba incolta e si regge a una vanga: le mani poggiate sotto al mento creano una qualche morbidezza di pelle tra il viso e il legno del manico dell’utensile. L’uomo ritratto è dolce, sembra accenni a un sorriso, ci guarda senza invidia, solo chiedendoci di fermarci un istante davanti a lui mentre si riposa, come per scambiare due chiacchiere e distrarsi dallo schifo di vita che fa. Con il dibattito relativo alla Triennale monopolizzato dal discorso su Gaza/Filippo Teoldi nelle settimane post-inaugurazione, subito mi sembrò che questo pezzo di allestimento dell’Esposizione Internazionale, nell’Impluvium, curato da Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, avesse tante cose da dire, benché, in mezzo a progetti contemporanei e futuribili, lì ci fossero solo pitture vecchie. Sempre per pigrizia, per disillusione, per ignoranza o, forse, perché sono pur sempre laureata in Storia dell’Arte, mi sento più interrogata e messa alla gogna da un Ceruti che non dalle contestazioni globali a cui assisto quotidianamente, dentro e fuori dalla 24ª Esposizione. Eppure, non sto riuscendo a entrare in Triennale.
Bramo, però, da mesi, è evidente, una visione dal vivo del quadro di Pitocchetto e una mia amica si è sempre offerta di cedermi il suo ingresso gratuito all’Esposizione Internazionale, così da soddisfare la mia voglia di visitare la quadreria dell’Impluvium senza sentirmi eccessivamente in colpa, perché sì, ci andrei, è vero, ma limitando i danni, senza dare di tasca mia dei soldi all’istituzione.

VIII.
Esiste un celebre articolo di Pasolini del 14 novembre 1974 intitolato “Cos’è questo golpe? Io so”, uscito sul Corriere della Sera. Ammetto che io con Pasolini non vado granché d’accordo e che le premesse, così come gli esiti di questo articolo del ’74 mi hanno sempre fatta sorridere, ma, per una volta, mi azzardo a citarlo: “Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che rimette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero […]. Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l’intera classe politica italiana”. Posto – come se servisse porlo – che io non sono un’intellettuale, seguendo la logica di PPP non so nulla: lui sapeva tutto e non parlava; io taccio, perché so di non sapere. Di conseguenza, non posso fare i nomi di tutte quelle persone – che, in realtà, so chi sono: errore di logica squisitamente pasoliniano – che partecipano alle manifestazioni di solidarietà con Gaza e il popolo palestinese, ma vendono i propri quadri a collezionisti più volte lanciatisi in proclami filoisraeliani, o quantomeno non propriamente filopalestinesi. Volendo, poi, allargare lo sguardo nel sacro nome dell’intersezionalità e del dover essere sempre la versione migliore – più attenta a tutto e tutti – di noi, so chi sono pure quelli che hanno partecipato ai picchetti contro la Scuola Piccola Zattere di Venezia – riaperta, mi hanno raccontato i lagunari, con soldi sporchi provenienti dalla Russia – e che, poi, sono andati, comunque, all’inaugurazione dello spazio. Lo sospettavo, lo dicevo: anche i fan delle contestazioni globali non sono sempre capaci di metterle in atto. Mi sento meno sola e medito nuovamente su quel biglietto gratuito, ma senza chiederlo alla mia amica. Penso anche a chi ha nobilmente deciso di ritirare le proprie opere (invendute) da certe fiere tra i cui sponsor c’erano aziende in combutta con Israele e il suo esercito, ma non le ha ritirate (quelle vendute) dalle case di certi collezionisti quantomeno discutibili sul piano etico-morale, nei confronti dei quali le accuse di molestie sessuali sono molte e risapute e di lunga data: il lunedì “Ti credo, sorella, bruciamo tutto”, il martedì “Ti credo, sorella, ma devo pagare l’affitto”. Prendersela direttamente con la persona a, b, c, d, e, f è più difficile che essere arrabbiati tout-court e, alla fine, mi sembra sempre e soltanto che – l’ho già scritto sopra, lo so – facciamo tutti un po’ schifo, solo in modi diversi e con diversi gradi di voglia di ammetterlo.
Ma, fingendo che Pasolini non sia mai esistito, come quotidianamente sogno, so bene che in ogni vero j’accuse la prima accusa è da rivolgere a chi lo stila (forse è solo perché ho la Luna in Leone, per cui io so’ io e voi non siete un cazzo, non solo nel bene, ma pure nel male).

IX.
L’8 settembre 2025 si è giocata la partita Israele-Italia nella fase a gironi delle qualificazioni per i Mondiali di calcio del 2026. Oltre che dei meme anti-israeliani e dei cuori in gola per il tabellino (vinta 5 a 4 dalla nazionale italiana, con 4 gol su 9 segnati negli ultimi 15 minuti), già durante la partita e nelle ora successive si è parlato di quei tifosi italiani che durante l’inno nazionale israeliano hanno dato le spalle al campo. Come ha scritto Valerio Moggia su UltimoUomo, queste persone “Non hanno mai espresso una posizione pro-Palestina né mostrato allo stadio simboli o striscioni esplicitamente in favore di questa causa, né hanno aderito alla campagna ‘Show Israel the Red Card’, che negli scorsi mesi dell’anno ha coinvolto centinaia di tifoserie in tutto il mondo, Italia compresa. In compenso, appartengono allo stesso gruppo di tifosi che, il 5 settembre 2016 ad Haifa, durante Israele-Italia delle qualificazioni mondiali, fecero il saluto fascista durante l’inno israeliano”. Questa storia è stata ripresa da Valerio Renzi – giornalista che parla di fenomeni legati alle estreme destre – finito in un battibecco social con Giuseppe Flavio Pagano, uno dei tanti influencer attivisti tuttologi di cui non so nulla e sto bene così, ma che talvolta vedo coinvolto in diatribe varie. Il battibecco si è sviluppato nelle storie Instagram dei due e purtroppo non ho fatto gli screen, ma il sunto era: Pagano ringraziava i tifosi italiani per essersi voltati, sottolineando come in un momento storico come questo, chi è contro Israele deve rimanere unito, lasciando perdere le altre differenze ideologiche, al che Renzi rispondeva che con i neofascisti, anche no, grazie, perché esistono sempre distinguo da fare e contesti da esaminare. Fregarsene dei distinguo e cancellare i contesti è come fare le contestazioni globali: tutto è uguale a tutto – e io fatico a crederci.

X.
“Questa è la mia contraddizione. È un male, un dolore. Ma dobbiamo difenderlo. Non cercare di risolverlo”; “È l’eterna follia di Amleto, il toccare con mano che l’universo è malato, e non vedere salvezza che nelle proprie mani; e, queste, vederle quelle povere cose che sono”; “Noi siamo Dio, siamo i diavoli e i beati: e sappiamo che, non c’è nulla da fare, dovremo scegliere: e cioè, diventare, un giorno, diversi da come siamo oggi, forse incomprensibili a noi stessi”: i quaderni di Giorgio Manganelli degli anni ’50 sono pieni di annotazioni di questo tipo. Quando a maggio scrissi la prima versione di questo pezzo, chiudevo dicendo: “Ho tempo fino al 9 novembre per cercare di diventare ‘diversa da come sono oggi’ aggiustando la bussola, sperando con tutta me stessa che il suo ago non mi conduca alla Triennale come in passato mi ha condotta al Parenti. Per ora, regge”. È fine settembre e la bussola punta più a nord che mai.
Inequalities, 24ª Esposizione Internazionale di Triennale Milano, fino al 9 novembre 2025
Portraits of Inequalities. Pittura di classe. Triennale Milano, fino al 9 novembre 2025
In copertina: il derby del 29 marzo 1977