La depressione illustrata ai piccoli

In Letteratura

Horatio Clare in “Aubrey and the terrible yoot” cerca di spiegare ai bambini la depressione – ed è molto meglio del Piccolo Principe

Più un concetto, una realtà o un’idea ci sfuggono, più le parole per descriverli si accumulano e si ammassano come moscerini addosso a un lampione in periferia. Se si tratta di malessere e depressione pure un linguaggio settoriale come quello medico va in stallo, la referenza tremola troppo per poter essere afferrata saldamente. Anche perché la clinica sa ancora poco, meno di quanto vorrebbe. Addirittura siamo ancora qui a discutere se meriti lo statuto di malattia come sostenevano Parkeri o Szaz che la definivano una patologia metaforica o una medicalizzazione di stampo occidentale della tristezza.

Se c’è un’emoraggia si sa esattamente come intervenire: si rimuove la massa ematica, si trova l’origine del sanguinamento, drenaggio endoscopico o aspirazione stereotassica; quando i traumi sono nella coscienza si annaspa nel trovarne l’eziologia, abbiamo addotto tutta quella catena di fattori psicologico-biologico-familiari-ambientali-ereditari che viene sempre mossa  per non ammettere il “ancora non sappiamo, facciamo quel che si può sperando che funzioni”. Non abbiamo capito ancora quanto serva inibire le monoaminossidasi (che diminuiscono i livelli serotonina e noradrenalina) o quanto danneggi realmente l’alta produzione di cortisolo o ancora quanto c’entri la struttura encefalica.
Tutto questo giro da voce narrante fuori campo da medical drama alla Shonda Rhimes per dire che l’autorevolezza per intervenire (o almeno a descrivere meglio) si è ceduta ad altri campi, dalla filosofia alla psicologia terapeutica. Non è un caso che la depressione abbia una foltissima bibliografia appresso e, tra gli esempi recenti, troviamo le duemila e passa pagine di Storia del mal di vivere: dalla malinconia alla depressione scritto da George Minois (un vera e propria storiografia del disturbo depressivo) o Il demone di mezzogiorno dello psicologo e colloboratore del Times Andrew Solomon, che fa da manuale autobiografato, molto improntato sull’approccio terapeutico comportamentale. A sparare un colpo di pistola in più in mezzo alla folla del dibattito, ci ha pensato Horatio Clare con Aubrey and the terrible yoot, recente vincitore del Bradford Boase award, il più importante concorso letterario britannico dedicato agli autori emergenti nella narrativa per l’infanzia e per ragazzi.

Il romanzo di Clare (già conosciuto per The prince’s Pen e Down to the Sea in Ships) è una favola contemporanea sul disturbo depressivo incentrata su Aubrey, un ragazzino scapestrato che per aiutare il padre Jim costretto a letto e a un devastante malessere a causa di un terribile incantesimo, intraprende un viaggio in una visionaria campagna inglese abitata da animali parlanti, che faranno da aiutanti nel corso della storia. Questo libro, edito dalla Firefly Press, ha tirato su molti vespai pretestuosi, prima di essere pubblicato, respinto di continuo perché giudicato il tema poco attrattivo da un punto di vista commerciale e una volta entrato negli scaffali criticato per non essere adeguato alla letteratura per i più giovani.

Merita (opinione personalissima dello scrivente) di sicuro almeno dei complimenti per l’intenzione. Spesso, negli autori  per bambini, si è riscontrata più la volonta di costruire degli strumenti che instillassero la giusta strada per la ricerca serena della felicità  che il costruire delle belle storie che fornissero dei sani input da lasciare poi al piccolo lettore. Il precedente è stato  Il piccolo principe prima (e devo dirlo per onestà intellettuale ma so che è una posizione criticabillissima e troppo provocatoria, ma per me è la versione young adult di è Una vita che ti aspetto di Volo) e Il gabbiano Jonathan Livingstone di Bach  poi, romanzi che un po’ troppo presuntuosamente si sono arrogati il diritto di darci il codice postale del senso della vita.

La pedagogia ci spiega perentoriamente da decenni che durante il processo formativo non bisogna cercare di buttare dentro più che si può, ma di tirare fuori il più possibile (educare, coincidenza, deriva appunto da ex ducere, portare all’esterno) anche quando a fin di bene si cerca di dare in mano le scarpette per andare a correre dietro ai propri sogni e alla realizzazione del sé nel mondo.
La funzione del libro nella crescita è questa, dare un valore esperienziale alla lettura o fornendoci una serie di  morali per darci delle linee guida (leggi Le avventure di Pinocchio) o dandoci gli attrezzi per strapazzare la complessità del reale.

Tornando a Clare, ha avuto il coraggio di crepare quella patina di felicità da due soldi collettiva perenne (come la chiamava Dostoevskij) e di inserire il disagio della depressione nell’accettazione sociale fin dalle innocenze della pre-adolescenza, non cedendo a quei temi importanti, ma un po’ caramellosi e che rimango purtroppo in astratto dato che vengono poco sperimentati nel quotidiano, come l’accetazione della diversità.  Pur essendo al primo libro per bambini/ragazzi, Clare è riuscito a calibrare bene la storia avvalendosi di espedienti ben congegnati. Ha dato dolcemente materialità alle disforie dell’umore impersonificandole in uno spiritello che si impadronisce della mente; ha reso verità alla depressione per quello che è, una sorta di aids del nostro sistema emotivo, l’immunodeficienza acquisita dell’animo, e come questa altera e ogni tanto scompigli la vita familiare, e ciò nel libro è ben evidenziato con misura.

Per creare l’ambientazione si è avvalso di un immaginario favolistico ben consolidato ma riattualizzato in modi piuttosto originali, non troppo alla Lewis Carroll, tornato un po’ più del consentito nel riuso letterario dopo le trasposizioni cinematografiche di Burton, e al quale è stata data un precisa atmosfera grazie alle illustrazioni di Jane Matthews (ma anche qui, senza sforare nel picturebook). Vengono riprese topiche classiche dei libri per i bambini, come l’inserire un piccolo avventuroso e intraprendente come protagonista, cosa che, oltre a una precisa valenza pedagogica, garantisce un certa immortalità editoriale, basta ripescare fuori dai tempi delle elementari le storie di Dahl, da Matilda al  il GGG, o i viaggi di Dorothy nel mondo di Oz regalati da Baum. Ricorre spesso perché si vuole veicolare la lezione principale e fondante di tutta l’evoluzione formativa, il saper godere in modo indipendente e sempre migliore della propria libertà individuale, dalle pagine si è sempre voluto trasmettere questo rinforzo positivo essenziale. Rispetto a un bellissimo film d’animazione sul pezzo come Inside Out in Aubrey and the terrible yoot troviamo meno sottotesto, senza venir meno alla delicatezza del tema e a un certo dosaggio di scene commuoventi e di tenerezza.

Un libro che oltre ad avere i suoi meriti prettamente letterari (tra quali anche un uso piuttosto innovativo e elastico della lingua come ha precisato il The Guardian Books  e il finale più surreale della narrativa per l’infanzia, parole dell’editor) è riuscito a raccontarci disagi attuali dei giorni nostri, buttando via un po’ di ovatta, sostituendola con la comprensione sensibile.