Fotografia in Italia, anno 2016

In Arte

Una mostra collettiva, curata da Fantom alla Galleria Viasaterna, prova a fare il punto sulla fotografia contemporanea in Italia: tredici fotografi nati dopo il 1980, una moltitudine di linguaggi e sperimentazioni, un’unica tensione alla ricerca.

Dove sta andando la fotografia contemporanea in Italia? No, la direzione non è una sola. Né, ovviamente, è definitiva, ma nemmeno, per questo, indefinita. È semplicemente articolata, più o meno complessa, in movimento verso la ricerca non di uno statuto, né di un risultato, bensì forse di un linguaggio attraverso il linguaggio, o meglio, i linguaggi. Ciascuno personalissimo, perché ha origine da ricerche diverse, da diversi punti di vista.

L’esito è caratterizzato da una molteplicità imprevedibile, apparentemente confusa (se un flusso di idee diverse si merita questa non-classificazione a caos), in cui la Galleria Viasaterna e il collettivo Fantom cercano di fare ordine, con una mostra dal titolo 2016 – Sulla Nuova Fotografia Italiana, ricognizione eterogenea sulla scena della fotografia italiana contemporanea visitabile e ri-visitabile – consiglio il ritorno, dopo essersi abbandonati alle prime, personali riflessioni – fino al 16 di settembre.

Domingo Milella, #0586. Phrygian Sanctuary, Turchia, 2011, cm 192x155 © Domingo Milella, courtesy Viasaterna
Domingo Milella, Phrygian Sanctuary, Turchia, 2011. © Domingo Milella, courtesy Viasaterna

Il campo, affollato per quantità, si restringe a una selezione di qualità di tredici giovani italiani, nati dal 1980 in poi, non in confronto, bensì in dialogo, con punti di contatto forse accidentali, intersezioni, suggerimenti in cui non c’è nulla di statico o di assoluto. C’è chi lavora attorno al concetto di “luogo”, come Domingo Milella (Bari, 1981), che ha ritratto in grande formato i paesaggi della Turchia, in un gioco di pieni e di vuoti che raccontano dell’uomo che li ha abitati, delle sue radici e della civiltà, del suo passaggio, di una presenza-assenza. Con lo spazio hanno lavorato anche Allegra Martin (Vittorio Veneto, Treviso, 1980), che presenta in modo più freddo, sospeso, vuotato, pulito e quasi asettico le architetture di Maurizio Sacripanti, e Teresa Giannico (Bari, 1985), le cui fotografie rappresentano spazi da lei completamente ricostruiti in carta e cartone sulla traccia di spazi esistenti, rispettati fedelmente al momento del montaggio e reinterpretati attraverso un punto di vista personale, scelto al momento dello scatto.

AllegraMartin, Scuola Media Santarcangelo di Romagna dalla serie Maurizio Sacripanti, 2013 © Allegra Martin, courtesy Viasaterna
Allegra Martin, Scuola Media Santarcangelo di Romagna dalla serie Maurizio Sacripanti, 2013 © Allegra Martin, courtesy Viasaterna

Il progetto in mostra di Giannico, Lay Out, è uno studio di quegli appartamenti milanesi in condivisione, destinati non a studenti, bensì a lavoratori, in cui si incappa sfogliando gli annunci e che restituiscono in qualche modo l’identità di chi li abita e di chi li offre in affitto. A colpirla, in questo studio, è stato «il dato per cui la domanda degli adulti per questo tipo di abitazioni ha superato quella degli studenti; ne consegue che oggi a trasformarsi sia il concetto di “casa”».  Visivamente, invece, «la prima cosa che mi ha colpito sono state le fotografie di questi annunci: ho cominciato a vederne – e cercarne – a centinaia». Fotografie amatoriali, che hanno permesso a Giannico di approfondire quel tipo di estetica e il modo in cui la gente decide di presentare il proprio ambiente. «Mi sono trovata di fronte a uno scenario di luoghi mostrati nella loro veste quotidiana e più naturale; angoli di stanze a volte completamente spogli, altre pieni di oggetti personali, molto personali, spesso mal disposti e non curati». Disposti secondo una casualità che per Giannico racconta mille dettagli.

«Le fotografie in questi annunci sono private di qualsiasi patina estetica in contraddizione a quella che sarebbe la loro funzione: richiamo per il pubblico». Ed è attraverso di esse che Teresa ha potuto ricostruire luoghi che non ha mai fisicamente visitato, ma che comunque esistono. Difficilmente ricrea luoghi immaginari: «Resto sempre molto legata alla realtà, mi piace osservare i luoghi e il modo in cui questi vengono vissuti, le tracce e gli ambienti». Il suo metodo, rigoroso, comincia e finisce nella fotografia. «Innanzitutto – spiega –  inizio a raccogliere delle fotografie del reale, che sia io a scattarle o che le prenda altrove; queste immagini sono degli appunti per me, il “disegno” a cui far riferimento, la parte più decisiva del mio lavoro». Ogni spazio viene poi ricostruito secondo il minimo dettaglio e «pezzo per pezzo tramite il cartone, fino a ottenere un diorama che fotografo subito dopo averlo terminato: dedico a questo processo una media di 5 giorni a pezzo». La parte più difficile del lavoro è dare profondità alle ambientazioni, «cosa che carta e cartone di per sé non permettono così facilmente e che prima ancora è assente nelle fotografie da cui parto».  Per Teresa la fotografia non è strumento, ma fine: «Senza di essa non esisterebbero queste immagini. Quello che a me interessa è creare un gap tra l’oggetto esistente e quello immaginato, non avverrebbe se questi ambienti fossero installazioni».

Teresa Giannico, Lay Out #9, 2015, © Teresa Giannico, courtesy Viasaterna

La figura umana, evocata, occultata o studiata nei suoi segni e luoghi da questi primi autori, rientra in campo con altri che decidono di portarla verso l’astrazione, come Francesco Nazardo (Milano, 1985), che spia particolari, frammenti del corpo e gesti secondo canoni della fotografia di moda e l’arte della metonimia, e Bea di Giacomo (Cittiglio, Varese, 1982), che si concentra su un’idea di maternità in potenza, nelle curve del grembo che annuncia il proprio essere portatore con estrema eleganza. L’analisi di qualcosa di molto umano è protagonista anche della narrazione di Lele Saveri (Roma, 1980), che racconta in uno sporco bianco e nero (e in fotocopia, seriale) le proteste studentesche di Hong Kong nel 2014 contro la riforma elettorale, mescolando evento, immaginario, ricordo, rottura, e ottenendo un mosaico denso, apparentemente disordinato, in cui lo sguardo si perde. La narrazione di Vittoria Mentasti (Torino, 1986) è invece più ordinata, delicata, concentrata sui territori di Gaza e Lifta, un villaggio nei pressi di Gerusalemme, e sulla contrapposizione, guardata in modo sottile e quotidiano, tra cultura israeliana e arabo-palestinese.

Lele Saveri, SCAN0008 from the series Barricades @ Lele Saveri, courtesy Viasaterna

La ricerca prende direzioni ancora diverse e inaspettate con gli altri giovani in mostra.Con Beautiful Waste Delfino Sisto Legnani (Milano, 1985) rende protagonisti oggetti utilizzati durante i suoi shooting commerciali, per restituire loro dignità attraverso la fotografia, stampata e resa parte di un’installazione e di altre forme. Anche la fotografia di Alessandro Sambini (Rovigo, 1982) diventa parte di un’installazione, insieme al video, e chiama lo spettatore a sedersi in poltrona (letteralmente) e a interagire con essa: la riflessione di Replay! è centrata sul potere delle immagini e sul loro valore sociale e politico. Alla fotografia, nel suo valore sociale e di comunicazione, pensa Martina Corà (Como, 1987), che ha lavorato d’archivio, prelevando e ricomponendo immagini preesistenti, per ottenerne qualcosa di nuovo, inaspettato, pop. In mostra i due progetti Quadri Cinesi che si muovono e Ooooolympics divertono e rinunciano a finezze e tecnicismi per arrivare direttamente allo spettatore nella loro apparente semplicità bidimensionale e tridimensionale.

Martina Corà, Vulcano from the series Quadri cinesi che si muovono, 2014, © Martina Corà, courtesy Viasaterna
Martina Corà, Vulcano from the series Quadri cinesi che si muovono, 2014. © Martina Corà, courtesy Viasaterna

Il lavoro di The Cool Couple, il duo fondato nel 2012 da Niccolò Benetton (Arzignano, Vicenza, 1986) e Simone Santilli (Portogruaro, Venezia, 1987), ruota invece attorno a un simbolo, quello della barba. A Kind of Display  nasce dalla scoperta della diffusione dei trapianti di barba in Turchia e dalla constatazione che essa, in quel Paese, costituisce una sorta di status symbol. La riflessione, poi, si è estesa a livello globale. «In prima battuta – spiega il duo –, la storia ci insegna che sembra trattarsi principalmente di un fenomeno di moda: periodicamente si presentano o tornano in voga dei trend legati alla barba. La cosa interessante tuttavia è che ogni volta in cui essa si manifesta massicciamente all’interno di una cultura, incarna sempre i valori dominanti in quel dato contesto (saggezza, virilità, salute, potere…)». Allo stesso tempo, continuano, «si tratta di una questione di punti di vista: se in una cultura la barba è bandita e caratterizza invece il tratto distintivo di una società estranea, allora assume connotazioni negative (scarsità di igiene, ignoranza, grettezza…)».

Quello che per molti di noi costituisce solo un complemento estetico diventa invece «un ottimo pretesto, sufficientemente triviale, ma al tempo stesso ubiquo che formula anche una domanda sullo stato della cultura; una sonda con cui poter mettere a confronto contesti molto diversi tra loro e restituire un ritratto del mondo in cui viviamo e delle sue frizioni interne». I contesti in cui uno stile particolare di barba ha maggior importanza «sono sicuramente quelli religiosi, in cui i fedeli seguono dei precisi  dettami. Nei casi che non hanno nessuna implicazione con i vari credo si tratta principalmente di moda, ma comunque anche della volontà di dichiarare la propria appartenenza ad una particolare cultura».

Il punto di vista degli autori non è maschilista e nemmeno eccessivamente maschile: la barba infatti «ormai è stata accolta come un elemento non più esclusivamente maschile (nel senso patriarcale, occidentale, eterosessuale)». Il lavoro completo che mescola vari linguaggi e materiali – dalle mantelline da barbiere, su cui vengono stampate immagini e fotografie, alle statue realizzate con la stampa 3D, fino a una parte di performance che coinvolge un barbiere – è presentato alla Galleria Viasaterna in una piccola selezione di tre opere che «verte attorno al tema della statuaria come linguaggio per la creazione di icone». The Cool Couple lavora da sempre utilizzando materiali e supporti diversi: eclettici o indecisi? «Siamo indecisi ed eclettici, pare. In un secondo momento, però, ci mettiamo a tavolino e decidiamo qual è il linguaggio più coerente e funzionale per tradurre un concetto in una forma che comunichi il senso del progetto».

A interessarli sono i processi che si generano quotidianamente nell’interazione tra le persone e le immagini. «Lo ripetiamo spesso e può suonare come una frase fatta, ma in questo flusso si ritrovano moltissimi argomenti. La nostra vita quotidiana si gioca tra visibilità e invisibilità, tra essere osservati e osservare». Hanno lavorato a temi molto diversi, nel loro percorso ancora breve, ma intenso, che sembra guidato da una produzione vulcanica di idee. «Spesso iniziamo a lavorare su un’idea, ma non sempre una bella intuizione supera la fase di approfondimento o i dubbi che ci poniamo (e in quello sì, siamo vulcanici). Mettiamo letteralmente alla prova ogni progetto prima di iniziare a tradurlo in qualcosa di concreto».

Vittoria Mentasti, Lifta, Israel #1, 2014 © Vittoria Mentasti, courtesy Viasaterna
Vittoria Mentasti, Lifta, Israel #1, 2014. © Vittoria Mentasti, courtesy Viasaterna

Sempre con i simboli lavora Federico Clavarino (Torino, 1984), che nella selezione di The Castle presenta un’idea, o una collezione di idee di Europa. Da un simbolo all’altro, in un gioco di allusioni, rimandi, connessioni. La domanda sull’Europa nasce in Clavarino dalla percezione di «un’insufficienza nella maniera in cui viene definita l’Europa nel discorso corrente e dai media. L’Europa intesa come questo pezzo di terra diviso in stati-nazione legati da patti di natura economica e politica, dai quali sono inclusi o esclusi paesi su basi assurde. L’Europa come il progetto a metà dell’Unione Europea, l’Europa del piano Marshall e del Patto Atlantico, l’Europa post-coloniale dal grande passato, ora politicamente insignificante se paragonata a colossi come la Cina o gli Stati Uniti. L’Europa che ha deluso, e che vede rinascere pulsioni nazionaliste e xenofobe. L’Europa fortezza circondata di gommoni».

Un’Europa impossibile da capire se si evita la domanda su cosa è in grado di rendere simile chi la abita, «oltre le differenze, le tensioni identitarie e gli stereotipi». Una cultura che ha radici antichissime, che si è evoluta, è naufragata nel dopoguerra e richiede nuova unità. The Castle fa riferimento a Il Castello di Franz Kafka, «un luogo da cui non solo emana un potere, ma anche un linguaggio, e il principale problema del protagonista, K., è quello di non riuscire a decifrare del tutto questa lingua, che si materializza in una serie di regole e direttive assurde». La realtà di The Castle è qualcosa di simile, in cui il linguaggio della fotografia, «per sua natura frammentario ed ellittico, può essere usato solo per suggerire delle possibilità di senso, delle connessioni tra cose apparentemente sconnesse e riavvicinate sulla pagina (o sulla parete), è come ritrovarsi davanti a un mondo in frantumi e cercare disperatamente di ricomporlo. Per me la fotografia è questo, e quando funziona ha il potere di una rivelazione. Ma la fotografia non potrà mai spiegare o determinare, ogni fotografia è sempre un enigma».

Alessandro Calabrese (Trento, 1983) riflette a sua volta sul linguaggio con A failed entertainment (citazione da Infinite Jest di David Foster Wallace, da cui prende alcune suggestioni il lavoro), in una sovrapposizione di immagini ottenute attraverso il tool di Google reverse image, e punta ad annullare il lavoro del suo autore in quanto fotografo. La fotografia scattata da Calabrese è infatti soltanto il punto di partenza del lavoro e viene poi sacrificata. «Nasce tutto da una sconfitta: sono immagini scattate in tre anni a Milano, alla ricerca di qualcosa che non ho mai trovato, nel tentativo di superare i miei maestri». Caricate su Google, hanno risposto in cambio con migliaia di risultati, tra cui Calabrese ha selezionato alcune immagini, per poi sovrapporle. «Dov’è la mia foto? Non c’è. È dentro, in teoria, al buco nero che risulta dalle sovrapposizioni». Un ragionamento sul concetto di autorialità e sulla volontà a tutti i costi di far vedere il proprio lavoro, «sul fotografo che sceglie cosa fotografare, quando, come, e questo viene messo invece in discussione da questo processo, per passare da un piano soggettivo – l’oggettività in fotografia non esiste –  al non scegliere niente, abbandonandosi a una dimensione totalmente randomica, casuale». Dimensione ottenuta anche grazie a un piccolo software, costruito da un amico, che scegliesse per lui le fotografie da scaricare per ridurre al massimo la soggettività. A latere c’è anche poi un ragionamento sull’appropriazione via web e sull’inutilità, oggi, di avere una qualche paternità sulle immagini. «Ce ne sono talmente tante, non si sa se serva farle, se debbano o non debbano essere di qualcuno…».

Alessandro Calabrese, 20140104 Mina, cm 80x100 © Alessandro Calabrese, courtesy Viasaterna
Alessandro Calabrese, 20140104 Mina, cm 80×100 © Alessandro Calabrese, courtesy Viasaterna

Il lavoro nasce da un ulteriore ragionamento, quello sulle debolezze umane e sull’incapacità di uscire dalle dipendenze «con cui cerco sempre di dialogare: in questo caso con la dipendenza da internet e con quella visiva. È in quel buco nero che va a finire tutto questo disagio, la frustrazione quotidiana che io, ma un po’ tutti coloro che si occupano di fotografia, credo, provano nell’aprire internet, 18 ore su 24, nel vedere immagini, dimenticarsele, esserne sommersi senza seguire un filo». La spinta diventa allora la noia, o forse la nausea per l’immagine fotografica tout-court, per la leggibilità e la comprensibilità della fotografia, da cui sfuggire, alla ricerca di un’astrazione non eccessiva, sulle orme di Bacon, una delle influenze che Calabrese riconosce maggiormente appartenergli. Il progetto vuole rompere con la fotografia, verso un nuovo tipo di immagine, ma è in realtà «finalizzato a un futuro ritorno alla fotografia di paesaggio. Nella mia testa ho due ulteriori capitoli di questo lavoro, nei quali tornerò a fare delle fotografie io stesso, ancora sulla scia di Infinite Jest». A Failed Entertainment nel frattempo, con le sue immagini rovinate punta a disturbare, come Bacon, che alterava i suoi dipinti, e «come quello che Wallace in letteratura chiamava un balbettare. Alla fine si tratta sempre di spingere al limite il linguaggio che si ha, qualunque esso sia».

Nelle prossime settimane una serie di incontri sarà dedicata all’editoria (calendario e aggiornamenti sulla pagina Facebook di Viasaterna). L’ultima sala della Galleria ospita una bella selezione di pubblicazioni di editori – molti di recente fondazione e indipendenti, sia italiani sia stranieri, – tra cui Dalpine, Discipula, Humboldt Books, NastyNasty©, Planar Books, Rorhof, Skinnerboox e altri ancora.

 

2016 – Sulla Nuova Fotografia Italiana, a cura di Fantom, Viasaterna, via Giacomo Leopardi 32, Milano, fino al 16 settembre.

Immagine di copertina: Alessandro Calabrese, Franz © Alessandro Calabrese, courtesy Viasaterna

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