Verso il museo digitale? Un giro a Brera

In Arte

L’emergenza che stiamo vivendo invita a una riflessione sulle modalità di fruizione di un museo e di un’opera d’arte

In questo periodo di quarantena e isolamento forzato siamo portati a riflettere su cosa nelle nostre vite quotidiane sia veramente importante e fondamentale, perché nelle nostre case abbiamo più tempo a disposizione e meno modi di impiegarlo.

E quindi l’arte? Rientra nei vizi mondani, negli svaghi superflui?
Niente affatto. Gli esseri umani sentono il bisogno di produrre cose belle quanto ne hanno di farne di commestibili. E la presenza di elementi decorativi anche nelle più antiche ed eterogenee società lo può confermare.

Noi siamo uomini fortunati. Viviamo un’epoca in cui il sogno di rete dei grandi umanisti del passato si è realizzato attraverso internet, e le possibilità che questa presenza costante ci concede sono ancora sottostimate e perlopiù inesplorate.

In concomitanza con questo periodo di isolamento, uno degli strumenti che abbiamo a disposizione per fruire l’arte da casa nostra è senza dubbio quella del museo virtuale.

Giulio Paolini, Jamais vu, 2004-2005

L’idea di rendere disponibili gli archivi museali online non nasce certo ora, ma è solo in tempi recenti che si trovano sui siti museali immagini in una definizione tale da poter essere ingranditi più e più volte mantenendo un’ottima qualità visiva e permettendoci di vedere le opere d’arte sotto una lente d’ingrandimento, regalandoci dettagli e scorci di cui l’occhio nudo non può godere.

Ciò non significa che le immagini digitali sostituiranno le visite dal vivo; era questa una paura che già si era presentata con l’avvento della fotografia, e numerosi testi sono già stati scritti su cosa si provi a confrontarsi con un’opera d’arte dal vivo piuttosto che di una sua riproduzione, a partire da Walter Benjamin. Ci si potrebbe perdere in litri di inchiostro, o in centinaia di caratteri, ma per semplificare basterebbe notare come ciò che si perde nel non visitare un museo dal vivo è la cosa più banale e allo stesso tempo importante: trovarsi lì.

Non si può comprendere appieno il Rinascimento fiorentino esposto agli Uffizi senza esser prima passati dalle vetrine delle boutique e pelletterie di Ponte Vecchio; la raffinatezza delle incisioni delle borse artigianali aiuta a comprendere la dedizione al disegno formale, agli intarsi che portano all’esaltazione geometrico-floreale di quei capolavori che ci troviamo davanti.  E lo stesso si potrebbe dire per il coloratissimo e vivido Rinascimento veneziano, che riprende lo spirito delle bigiotterie e gioiellerie della laguna e della loro impareggiata abilità nel lavorare gemme, vetri e pietre preziose.

Ciò che si perde nell’osservare un capolavoro su uno schermo è quindi il contesto, ciò che serve a comprendere e interpretare alcune delle condizioni che hanno portato alla sua nascita.

I musei virtuali danno però spazio a possibilità che ai musei fisici sono escluse. E se la più immediata e banale è la visione di opere d’arte da casa, è bene soffermarsi sulla modalità di tale fruizione.

Ho preso come esempio la Pinacoteca di Brera per tre motivi.

Il primo è perché il suo sito contiene la sezione “Altissima Definizione”, che propone una selezione di opere renderizzate con una definizione tale da poterla ingrandire quanto più vogliamo senza perderne in nitidezza, permettendoci di scoprire dettagli e tracce che dal vivo non potremmo cogliere.

Il secondo motivo è che si tratta di uno dei musei principali di Milano e d’Italia, e tutti coloro i quali volessero cimentarsi in questo nuovo tipo di esplorazione potranno poi confrontare quanto hanno visto con la visione dal vivo, una volta che finirà la quarantena e torneremo a frequentare i luoghi pubblici.

Il terzo motivo è personale e assolutamente privo di secondi fini. La pinacoteca di Brera è uno dei miei luoghi preferiti, e per condurre questo esperimento volevo partire da un posto che potessi riconoscere come familiare, intimo, mio.

Per condurre questa analisi ho scelto due opere per certi versi simili e per altri molto diverse, in modo da cercare di ottenere un risultato organico.

Liberale da Verona, San Sebastiano

La prima opera che ha colto la mia attenzione è il “San Sebastiano” di Liberale da Verona (consultabile qui), dipinto negli anni ’90 del XV secolo. È un’opera particolare, che suscita subito una certa curiosità negli occhi di chi ci si imbatte. Il San Sebastiano è uno dei soggetti prediletti dalla pittura rinascimentale, poiché la postura del giovine trafitto dalle frecce rappresentava il perfetto esempio di martirio, il che permetteva di dimostrare agli artisti la loro abilità nel coniugare il soggetto religioso con l’esaltazione del corpo umano. Questa versione non è particolarmente innovativa nella rappresentazione del martire, che è raffigurato come una figura angelica, efebica, non in preda agli spasmi di dolore. Ciò che è veramente innovativo è lo sfondo alle sue spalle, un canale veneziano sul quale si stagliano i palazzi dalle cui finestre si affaccia il vicinato tutto.

È proprio grazie alla possibilità di ingrandire le persone che si accalcano alle finestre che riusciamo a cogliere la peculiarità di questa tavola. I soggetti ritratti sono numerosissimi, e ciascuno di essi è caratterizzato da diversi vestiti, posture, espressioni. Taluni si guardano fra loro creando un dialogo interno e una propria narrazione che sfugge l’occhio nudo. Da una finestra a margine, in alto a destra, una donna guarda commossa con la mano appoggiata al davanzale e gli occhi rivolti verso l’alto, come a dire a chi accoglierà l’anima del martire di prendersene cura.

Grazie a questi dettagli finemente ricercati ritroviamo il richiamo alla prima professione di Liberale da Verona, quella di miniatore. È come se solo grazie a strumenti tecnologici un tempo impensabili venga fuori una parte di sé prima nascosta e celata. Ciò dimostra ancora una volta come le opere del passato non siano oggetti statici, ma che evolvono nel tempo, insieme allo sguardo di chi li osserva.

Bramante, Cristo alla colonna

La seconda opera che ho voluto prendere in considerazione è il “Cristo alla colonna” di Bramante (qui), dello stesso decennio. Ho scelto questo quadro innanzitutto per la coincidenza del periodo storico, che facilita il confronto tra le due opere. Anche il soggetto è molto simile; nonostante in quest’opera il soggetto sia Cristo è innegabile una certa assonanza iconografica tra le due immagini. C’è inoltre un discorso di circolarità geografica: l’opera di Liberale si trova in una delle prime sale del museo, mentre quella di Bramante si ricollega ad essa solo verso la fine, venti sale dopo. È inoltre uno dei miei quadri preferiti e volevo sperimentare in prima persona cosa si provasse a guardare con questi nuovi occhi un’opera già ammirata per ore e ore.

Per quanto sia magico trovare ingranditi e così vicini da poterli toccare i dettagli familiari, dai muscoli in tensione sotto la presa delle corde, alla fronte corrucciata e alle lacrime che solcano il suo viso (questo sì rivoluzionario nella sua drammaticità), ciò che mi fa sobbalzare è il notare qualcosa di nuovo in un’opera che ero convinto di aver esaminato nei suoi minimi aspetti. Sono le goccioline di sangue tra i capelli, appena accennate, che neanche ad un primo ingrandimento si rivelano allo spettatore virtuale. È come se Bramante le avesse nascoste per non farle trovare, in un rapporto intimo e personale che lo lega alla sua opera. E nel vederle mi sento quasi un po’ turbato, come se avessi violato uno spazio suo, che non voleva venisse colto dagli occhi dell’osservatore.

Mi sono sentito come James Stewart ne “La finestra sul Cortile” di Hitchcock, un voyeurista col binocolo che guardando fuori dalla finestra per distrarsi dalla sua immobilità obbligata si scopre a entrare nelle vite degli altri, a vedere qualcosa che non avrebbe dovuto.
Solo che a me è successo con un’opera del quindicesimo secolo.

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