Un prato verde a due passi da Auschwitz: dove nulla si sa, si vede, si sente

In Cinema

Premiato a Cannes e candidato a cinque Oscar (tra cui regia e film), “La zona d’interesse” dell’inglese Jonathan Glazer, autore 10 anni fa di “Under the Skin”, racconta la placida vita della signora Hoss e dei molti figli. Al di là dei confini della loro magione c’è però la più grande fabbrica dell’orrore nazista, di cui il marito è comandante. E nonostante la vicinanza. i bagliori rossastri, le colonne di fumo, si ignora o si fingono di ignorare le migliaia di quotidiane morti. Uno straordinario film per ricordare la Soluzione Finale hitleriana, e i muri che ci costruiamo intorno anche oggi per non sentirci in colpa

Dieci anni dopo il controverso Under the Skin, l’inglese Jonathan Glazer torna sugli schermi con La zona d’interesse, il suo film più affilato e potente, vincitore del Gran Prix Speciale della Giuria all’ultima edizione del Festival di Cannes e candidato a cinque premi Oscar. Una grande villa circondata da un sontuoso giardino, a due passi dal fiume: per Hedwig Höss (Sandra Hüller) è il luogo ideale dove far crescere in felice libertà una nidiata di figli, godendo del contatto con la natura e della quiete quotidiana, tra un tè con le amiche e qualche chiacchiera pettegola. Ma al di là del muro c’è il campo di concentramento di Auschwitz, di cui l’elegante e affabile capofamiglia, Rudolf Höss (Christian Friedel), è il comandante.

Un mondo altro, fuori campo, lontano dagli occhi e dalla coscienza, di cui ci arrivano rumori talmente sopiti da essere inizialmente quasi indecifrabili, bagliori rossastri nella notte, colonne di fumo che si alzano nel cielo, e cenere, un’immensa coltre di cenere. L’orrore prende così le sembianze di aiuole fiorite, sorrisi soddisfatti, voci squillanti di bambini. Una natura rigogliosa e sovranamente indifferente ai destini umani. Tutti i destini umani. Sia delle vittime che dei carnefici.

A Jonathan Glazer, che ha adattato molto liberamente il romanzo omonimo di Martin Amis, non interessa per nulla la pura e semplice ricostruzione storica di uno dei momenti più bui della nostra storia. Della Soluzione Finale, messa in atto con disumana efficienza e scientifica efficacia – e un fanatico rigore destinato a trasformarsi in corsa furibonda, con l’avvicinarsi della fine della guerra e dell’inevitabile sconfitta – all’autore interessa l’aspetto paradossale, l’assurdo intreccio tra agghiacciante mostruosità e assoluta normalità. Esattamente ciò che Hannah Arendt definiva con insuperabile lucidità “la banalità del male”.

Un racconto che procede per ellissi, che dice tutto senza mostrare nulla. Se non dopo, nelle vetrine del museo costruito su ciò che resta del campo, per conservare e far vedere al mondo ciò che resta di centinaia di migliaia di persone rinchiuse lì e non tornate, “passate per il camino”. Tanti anni dopo, per non dimenticare, in una nuova epoca, ma non dell’essere – Heidegger aveva torto anche su quello, non c’è nessuna nuova epoca, siamo ancora quello che eravamo, legno storto che non si raddrizza.

Proprio per questo La zona d’interesse è un film necessario. Perché non parla solo di Auschwitz, della Seconda Guerra Mondiale e del nazismo. Parla di noi, oggi, dei muri che ogni giorno ci costruiamo per non vedere, non sapere, non sentire. Per non sentirci in colpa. Per far finta di non vedere il cielo sempre più nero che incombe sopra il nostro praticello verde, così curato, così ordinato, sempre più piccolo.  

La zona d’interesse di Jonathan Glazer, con Christian Friedel, Sandra Hüller, Johann Karthaus, Luis Noah Witte, Nele Ahrensmeier       

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