L’infida sorellanza degli amici di Harold

In Teatro

Una regia corretta, una traduzione fedele e degli interpreti innamorati dei loro personaggi a più di cinquant’anni dal primo “compleanno del caro amico Harold”

La drammaturgia di The Boys In The Band, scritta da Mart Crowley più di cinquant’anni or sono, non è forse perfetta, se per “perfezione” s’intende che ciascun elemento sia dosato col misurino, che nessuna ridondanza sia ammessa e che le risate cadano con metronomica precisione ogni tot, come accade in certe commedie scritte talmente a regola d’arte da risultare quasi asettiche.

The Boys In The Band al contrario ha un cuore rumorosissimo, il cui battito tiene sul chi vive lo spettatore anche nei momenti meno calibrati e nei (pochissimi) tempi morti. La bellezza di questo dramma – visto oggigiorno – sta nel suo essere contemporaneamente inattuale e attuale: inattuale perché il “folklore” omosessuale che propone è fortemente ancorato al 1968, anno in cui The Boys In The Band fu per la prima volta rappresentato, e quindi a un’epoca in cui l’orgoglio gay sembrava ancora fantascienza, sebbene i moti di Stonewall fossero alle porte.

Attuale lo è invece perché le dinamiche di infida sorellanza dei suoi protagonisti sono ancora in vigore, e lo saranno fino a quell’era mitologica – vagheggiata da tanti VIP che fanno professione di grande apertura mentale – in cui i Pride non saranno più necessari. E quindi sempre di fantascienza parliamo.

In questo momento The Boys In The Band è di stanza a Milano, e più precisamente allo Spazio Teatro 89 (dove si tratterrà fino al 19 giugno). Questo ambiente offre una sistemazione site-specific ideale per l’allestimento curato da Giorgio Bozzo, estremamente fedele, peraltro, all’adattamento cinematografico della commedia stessa diretto da William Friedkin, Festa per il compleanno del caro amico Harold, il cui montaggio serrato viene egregiamente sostituito da un utilizzo abile della profondità di campo: l’azzeccatissima scenografia vintage permette al grosso del cast di rimanere sempre in vista, essendo collocata al livello del pubblico, che circonda i personaggi come un ospite in disparte (ma vigile).

Assistendo alla festa, gli spettatori vengono raggiunti da zaffate di fumo passivo, dall’odore di tramezzini al gambero e dalle velenose frecciate scagliate dagli infidi invitati, capaci di trasformare il dettaglio più insignificante del comportamento altrui in un’arma letale con cui sbudellare – affettuosamente – i propri amici più cari.

La regia di Bozzo è “corretta” nell’accezione migliore del termine: non si sovrappone al testo né lo guasta con un’attualizzazione che – anche se si limitasse al livello puramente formale – finirebbe paradossalmente per accentuare il suo lato inattuale. Lo stesso fa la coscienziosa traduzione curata da Costantino Della Gherardesca (il quale si lascia sfuggire solo un fugace riferimento ai “maschi alpha” che stona un po’ nella ricostruzione filologica del lessico del milieu gaio newyorchese degli anni Sessanta).

In contrasto con questa lodevole fedeltà, gli attori, rispetto al cast dell’originaria produzione Off-Broadway (poi reclutato anche per il film di Friedkin), sembrano – e chiaramente non è colpa loro – quasi troppo giovani e baldi, anche se verosimilmente la loro età non è troppo diversa da quella degli antichi interpreti. Un altro segno dei tempi: la gente matura e invecchia più lentamente di cinquant’anni fa… e personalmente non me ne lagnerei, se non per scrupolo storicistico.

In compenso sono tutti visibilmente innamorati dei loro personaggi, consci dell’occasione imperdibile di portare in scena questo testo sui palchi (sia pure rasoterra) italiani. Il gioco di squadra funziona bene: laddove i vari Michael, Harold, Emory, Larry etc. sono delle primedonne fatte e finite, gli attori di questo allestimento non sgomitano, ma collaborano proficuamente.

Si distinguono, ad ogni modo, per bravura Angelo Di Figlia, tridimensionalissimo e niente affatto banale nei panni della “checca sfranta” Emory, e Paolo Garghentino, che fa propria la natura quasi da Gorgone del suo Harold, capace di pietrificare non tanto con lo sguardo ma con la lingua

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