Kafka a Teheran, storie di ordinario potere

In Cinema

Ali Asgari e Alireza Khatami denunciano il modo di vita e il regime iraniano con 9 brevi “interrogatori” che raccontano storie di quotidiani soprusi ai danni di cittadini e cittadine. Giovani e agée, poveri e non, miti e battaglieri, sono vittime di zelanti funzionari, intenti a riaffermare, con diversi gradi di accanimento, la loro autorità. Una sfida che non ha lasciato indifferente il governo: al ritorno da Cannes 20123, dove il film è stato apprezzato, Asgari è stato fermato e intimidito dalla polizia

A fine maggio scorso, al rientro in patria dall’apprezzata partecipazione al Festival di Cannes, Ali Asgari, co-regista e sceneggiatore con Alireza Khatami di Kafka a Teheran che esce ora nelle sale italiane, è stato fermato dalla polizia iraniana, che gli ha ritirato il passaporto per impedirgli di seguire e spiegare quest’opera in altri festival. Minacciato di finire in carcere per le idee e i film che ha girato, com’è accaduto ad altri autori del suo paese, primo fra tutti Jafar Panahi, è stato al momento diffidato, ma forse sarebbe meglio dire “gli verrà impedito di” realizzare altri lavori critici sulla società in cui vive e le sue
istituzioni. Si dice spesso che l’immaginazione precede la realtà, anche quando le è debitrice di ispirazione, come in questo caso. Infatti proprio uno dei nove episodi che compongono il film, in cui va in scena l’incontro/scontro tra semplici cittadini e semplici membri di un potere ottuso e inflessibile, visto a vari livelli di importanza, mostra un autore di cinema come lui che si vede costretto, pena il mancato nulla osta alla lavorazione e il taglio dei fondi, a “sfoltire” il suo racconto di episodi e personaggi scomodi, fino a renderlo del tutto privo di interesse. E soprattutto lontanissimo dalla vita dell’autore, di cui doveva essere una sorta di autobiografia.

Così, in un certo senso il sopruso patito da Asgari nella vita reale potrebbe a buon diritto essere inserito nella galleria di gratuite e sadiche angherie che i suoi personaggi si trovano a subire. E alcuni di loro sono anche ben reattivi, non sempre soccombono nel confronto, soprattutto le donne, difendendosi dalle manipolazioni e facendo della propria ribellione personale e privata un seme di opposizione a un assetto sociale totalitario. Si va dalla studentessa spiata perché il fidanzato l’ha accompagnata in moto a scuola ai due disoccupati in cerca di lavoro (una ragazza e un signore di mezza età, timidi e intimiditi) oggetto di pesanti avances spionistico-sessuali, alla tassista disperatamente impegnata a convincere l’autorità che chi guidava la sua vettura era senza velo perché al volante c’era il fratello, allo sciagurato, mite genitore, che apre la galleria di racconti, cui viene impedito da un funzionario dell’ospedale, arrogante e fintamente gentile insieme insieme, di dare al figlio il nome David. Perché non iraniano, anzi peggio, ebraico.


Ognuno di loro tocca con mano, in un faccia a faccia che non supera mai i dieci minuti (in totale il film ne dura meno di 80) la sua inferiorità di status e potere, l’arroganza e l’arbitrarietà del suo interlocutore (dalla preside al manager, al poliziotto), che cambia argomento, blandisce e minaccia, sempre esibendo la sua posizione di forza. Sono tutti episodi privi di finali drammatici, anzi c’è perfino qualche lieto fine. E in fondo è questo il bello del progetto, perché così le immagini di violenze, arresti e brutalità dei militari, soprattutto i morti delle e dei manifestanti per Mahsa Amini, lasciati nelle strade e nelle piazze dalla polizia, così diffuse anche nei nostri tg (che pure se ne occupano sempre meno), sono qui in qualche modo completate dall’efficace illustrazione della miseria e della follia quotidiane di un regime. Che infligge a molti, a Teheran e dintorni, obblighi assurdi e prove umilianti, spesso per puro spirito di intimidazione.

Quanto durerà, come finirà tutto ciò? Asgari e Khatami hanno spiegato il loro progetto, girato in soli sette giorni e tutto rigorosamente scritto, senza un briciola di improvvisazione degli attori (a tratti sembra quasi un documentario tv) citando Focault, la biopolitica e il biopotere. “Analizziamo il modo in cui i regimi totalitari controllano gli aspetti personali delle vite degli individui, come ad esempio i corpi, la sessualità e l’identità. Attraverso quadri viventi drammaticamente realistici, estremamente convenzionali e spesso ironici e paradossali”. Nella sequenza finale suggeriscono comunque un epilogo terribile, quantunque fantasmatico e metaforico. Mentre in una stanza un uomo anziano muore, forse di infarto, dalla finestra dietro di lui si vedono gli esiti di uno spaventoso terremoto, con grattacieli che si sbriciolano come le Torri Gemelle. Se aggiungiamo che l’incipit di Kafka a Teheran (il cui titolo originale riprende quello dei Versetti terrestri della poetessa Forough Farrokhzad) mostrava la metropoli all’alba, nel suo placido risveglio quando le luci si spengono e i rumori quotidiani, umani e non, iniziano a farsi sentire, la sensazione di una parabola resta negli occhi e nella mente. E qui di sicuro non c’è traccia di happy ending.

Kafka a Teheran, di Ali Asgari e Alireza Khatami, con Majid Salehi, Gohar Kheirandish, Farzin Mohades, Sadaf Asgari, Hossein Soleimani

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