A 10 anni dal suo ultimo film, il regista polacco, grande vecchio del cinema dell’Est europeo, ha vinto grazie a “Eo” il Premio della Giuria al Festival di Cannes con un omaggio/remake a un capolavoro di Robert Bresson. L’epopea di un mite asinello sottoposto a ogni genere di maltrattamenti e angherie è girata spesso “in soggettiva” dagli occhi dell’animale. Un esperimento visivamente e acusticamente forte, sperimentale, tra riprese a 360 gradi, montaggio frenetico, luci e colori accesi, effetti ipnotici
Arriva sugli schermi in questi giorni festivi, forse non esattamente i più adatti a un prodotto di questo genere, ma forte di un biglietto da visita come il premio speciale della Giuria al Festival di Cannes, Eo, l’ultimo film, a 10 anni da 11 minuti, del regista polacco 84enne Jerzy Skolimowski. Un vero grande vecchio del cinema dell’Est, che ha attraversato il disgelo post-staliniano e il lento declino comunista, conquistando da tempo una statura e un apprezzamento internazionali. Fu definito “poeta boxeur” (anche perché è stato effettivamente sia artista che pugile) dal suo maestro Andrzej Munk, insegnante negli anni 50-60 alla mitica Scuola di Lodz, che ha frequentato insieme a Roman Polanski, di cui scrisse il lavoro d’esordio, Il coltello nell’acqua. Qualche anno prima, nel 1959, Skolimowski aveva sceneggiato Ingenui perversi di Andrzej Wajda, di cui fu amico e in un certo modo allievo.
A un altro grande autore del passato si rifà ora con Eo, progetto che covava nella mente del regista da decenni, da quando, ragazzo, aveva pianto (l’unica volta che gli è capitato al cinema, ha dichiarato di recente) vedendo Au hasard Balthazar, capolavoro del 1966 di Robert Bresson vincitore del Leone d’Oro alla Mostra di Venezia. Il film gli rende omaggio riprendendone il protagonista, l’asinello, che qui si chiama Eo e col suo verso dà il titolo al film. Se in qualche modo questa sorta di remake rifiuta la chiave naturalistica dello stile narrativo originale, ne condivide però la sostanziale visione pessimista dell’uomo.
EO è solo, piccolo, indifeso, ma, seppure timidamente, resistente e indistruttibile. Nato in un circo con l’acrobata Kasandra, che per anni l’ha amato e curato, finisce sfruttato come attrazione per bambini, poi in una fattoria, rischia una prima volte la morte per mano di un folle gruppo di tifosi di calcio e infine, in un viaggio sempre più drammatico dalla Polonia all’Italia, conclude la sua esistenza tra gli steccati di un macello. Mentre passa di mano in mano, di avventura in avventura lungo strade e autostrade, tra boschi e cascate, incontra una contessa (Isabelle Huppert) o a un prete spretato. E Skolimowski si mette nella sua testa, nel vero senso della parola, riempiendo il film di riprese in soggettiva, dagli occhi dell’animale. Che è paziente, intelligente, sensibile, e finisce per subire la violenza e l’insensatezza umana.
Il regista ne visualizza i pensieri, i ricordi, i desideri. Come ha detto lo stesso Skolimowski «gli asini non sanno cosa sia la recitazione, non possono fingere nulla: semplicemente sono. E sono gentili, premurosi, rispettosi, educati e leali. Vivono al massimo nel momento presente». Prodotto da Jeremy Thomas e scritto con Ewa Piaskowska, moglie del regista, alla terza collaborazione con lui dopo Quattro notti con Anna e Essential Killing, questo poetico e visionario Eo non ha una vera e propria trama, ma piuttosto è un canovaccio che segue l’itinerario dell’animale e osserva con lui gli eventi, le persone con cui entra in relazione, i loro comportamenti quasi sempre spregevoli, tra indifferenza, possesso, sfruttamento.
Ma a contare sono soprattutto le immagini, frutto dell’impegno comune dell’autore e del direttore della fotografia Michal Dymek: un complesso alternarsi di cupe e crude riprese del mondo d’oggi e libere sperimentazioni fatte di colori accesi, luci al neon, movimenti a 360° della cinepresa: con effetti ipnotici estremi in un montaggio a tratti ansiogeno che mette alla prova lo spettatore davanti alla nuova estetica digitale. Insomma un tour de force visivo e acustico (le musiche stridenti di Pawel Mykietyn sono basate su suoni naturali) volutamente brutale, che prende Bresson a modello, certo, ma anche per aggiornarne il rigore al mondo delle immagini e dei suoni cui siamo più abituati.
Eo di Jerzy Skolimovski, con Sandra Drzymalska, Mateusz Kosciukiewicz, Tomasz Organek, Isabelle Huppert, Lorenzo Zurzolo, Saverio Fabbri