“Senza salutare nessuno”: la riparazione della memoria interrotta

In Letteratura

Quanto a lungo pesa la conseguenza di una violenza subita? E se a firmarla è una pagina della Storia che nessuno ha in fondo voglia di guardare in faccia? In “Senza salutare nessuno” (Laterza) Silvia Dai Pra’ ricostruisce la storia di una rimozione di famiglia e affronta un viaggio in Istria. Con occhi ben aperti.

Limitrofo è un parola che nasce meticcia, mezzo latina e mezzo greca, e ingloba dentro di sé i concetti di confine e di nutrimento; per scovarne le origini bisogna risalire fino al Tardo Impero: lì, lungo quella incredibile macchina di inerzia bellica che tra avamposti muri ed empori volanti segnava la fine del territorio di Roma, limitrofe erano le terre intorno al limes, quelle da cui arrivavano cibo e vettovagliamenti per le truppe di stanza.

Conosciuto e sconosciuto, abitante e ospite, autoctono e straniero sono tutte categorie che, in questo spazio, hanno una lettura complessa e una natura labile e stratificata: cosa è l’identità, cosa sono le radici, cosa la lingua, infatti, se già l’aggettivo che definisce il luogo della frontiera contiene in sé, insieme, le idee di mescolanza, vicinanza e nutrimento?

Limitrofo è il luogo di chi assomiglia ma non è identico, di chi si conosce ma non del tutto, di ciò in cui ci si rispecchia ma che mantiene alterità.

Limitrofo è anche il territorio del dubbio possibile: quanto, davvero e in profondità, siamo in grado di comprendere chi ci sta accanto?

È questa la domanda che sottende all’ultimo libro di Silvia Dai Pra’: Senza salutare nessuno – Un ritorno in Istria, pubblicato da Laterza, che proprio di vite di confine, e confinanti, parla.

Doppio è il piano su cui si muove la narrazione: da una parte la ricostruzione della vicenda famigliare, dall’altra quella del territorio istriano. Doppio, tra micro e macro, è anche il senso della riflessione profonda di questo testo: di cosa fa la Storia grande, quella con la esse maiuscola, quando entra nella vita quotidiana di una ragazzina di sedici anni, di una famiglia, di una comunità. E poi di quello che accade dopo. Del trauma che congela i sentimenti. Dell’affetto negato che si trasforma in fame. Della tensione strisciante di una vita intera, dell’incapacità di capirsi e dell’impossibilità di farsi capire. Della negazione.

Al centro del libro di Silvia Dai Pra’ sta la figura di sua nonna, Iole, autoesiliata in un rituale di abitudini solitarie insieme premurose e parche di affetto – pane con l’uva per colazione, patate fritte come verdura, la televisione accesa sul Commissario Derrick :

“un’intera vita racchiusa lì, in quei gesti quotidiani e sciatti, la strada per andare al forno la mattina presto, quella per andare in chiesa a sentire la Messa, l’olio nella padella, il telecomando aggiustato con lo scotch, il pavimento da lavare, i nervi tesi di mio nonno”.

Agordo, la terra nella quale vive, è un confine piovoso, ristretto, guardato a vista dalle montagne: il luogo della lontananza e della noia, dei giorni uguali, delle estati di visita coatta per l’infanzia della voce narrante di Silvia, costellate da improvvisi scoppi d’ira e lunghissimi silenzi.

Iole Martini è una nonna media, di una famiglia media, mediamente infelice.
È dopo la sua morte che la sottile incongruenza della sua esistenza comincia a prendere una forma: non sono solo gli improvvisi, non motivati momenti di tristezza e di pianto; non il mai risolto rapporto con il figlio (il padre della voce narrante protagonista), costellato da feroci litigate, rifiuti perentori e flebili tregue.
L’incongruenza più evidente sta in una sistematica cancellazione di memoria:

“non una lettera, una cartolina, un’agenda, un biglietto – tutto ciò che una settantenne vissuta in un’epoca predigitale non poteva non avere accumulato, e che, in qualche modo, doveva essere andato perso”.

Del passato più lontano, tra bugiardini di medicinali e santini di devozione, sopravvivono soltanto due foto: chiuse in un astuccio dentro un mobiletto. Nascoste.
L’uomo che vi compare è il padre di Iole, Romeo: il bisnonno.
Nato Martincich.
Cresciuto a Santa Domenica di Albona, Istria.
Commerciante.
Padre.
Marito.
Morto nella foiba di Vines, il 5 ottobre 1943.

È questo il segreto che Iole – divenuta Martini per decreto fascista del 1933 – ha covato, e ha sofferto, e ha nascosto, per tutta la sua esistenza di donna, madre, moglie. E dal quale è stata inevitabilmente bloccata.
Un rimosso che, una volta rivelato, non può che scardinare il senso delle certezze date per acquisite anche nella vita di una donna di tre generazioni successive (a sua volta figlia, madre e moglie), e innescare la necessità di chiedersi come, chiedersi perché.   

«Era un gerarca?».
«Scusa ma secondo te uno come fa ad essere un gerarca e ad avere un negozio di alimentari? Ma non l’hai capito che i commercianti lavorano venticinque ore al giorno?»:  ecco mio padre, sempre sereno e disposto al confronto.
«Era fascista?».
Mio padre scuote la testa e pronuncia una parola che per lui spiega tutto:
«Era un commerciante».
Perché nessuno più di lui ama le stereotipie o le generalizzazioni, le etichette che contengono, come in un romanzo di Zola, ogni possibile destino, ogni fattibile percorso – e commerciante per mio padre questo vuol dire: colui che sta sempre dalla parte di chi è al potere, nicchia non si schiera se non quanto serve, cambia bandiera, tiene solo al suo negozio.

Dice Silvia Dai Pra’ che no, assolutamente, la sua intenzione, una volta setacciati archivi locali, libri, giornali, liste di caduti, memorie, siti, non era certo quella di scrivere un libro di storia.

E Senza salutare nessuno è in effetti qualcosa di molto più complesso da definire rispetto a un libro di storia: perché se da una parte della ricerca storica condivide la serietà, lo scandaglio di fonti rigoroso, esigente, martellante – dispiegato in un apparato di note esplicative finali preziosissime per tracciare un possibile perimetro – dall’altra il tessuto della scrittura è profondamente narrativo, il ritmo è asciutto e incalzante come in un reportage, la tensione e l’introspezione sono quelle di un romanzo di formazione.

Solo che a formarsi, in un serrato giro di capitoli, è una sorta di coscienza retroattiva: che si completa mano a mano che riempie i buchi di una memoria solo apparentemente compiuta.

Così Silvia che parte, bussa alle porte, cerca il luogo preciso, insegue la parola istro-veneta di quelli che ancora vivono, non si sottrae alla reticenza, ai silenzi, per due anni non molla la presa.

Rimette in fila la catena delle cause e degli effetti, restituisce la complessità di una terra in cui la Storia, quando passa, cambia cognomi e connotati: racconta dei 35 giorni della Repubblica di Albona, il tempo in cui i minatori dell’Arsa, nel 1921, presero il potere, fino a quando non vennero processati (e poi assolti tutti) per instaurazione del regime soviettistico.

“Perché l’Istria, per quanto oggi possa sembrare un luogo spopolato che tira avanti solo grazie agli airbnb e agli apartmani, ai turisti tedeschi e alle casse di vino bianco, in passato è stata un centro industriale che arrivò ad ospitare fino a diecimila operai provenienti da tutto il Regno; pure De Gasperi, quando, nel dopoguerra, chinò il capo dinanzi alle pretese slave sull’Istria, sussurrò, implorò: «almeno lasciateci le miniere dell’Arsa…».

L’Arsa: il consorzio di miniere che scavavano come termiti la terra ai piedi di Albona; il cuore della produzione carbonifera italiana; la risorsa da sfruttare al midollo negli anni dell’autarchia fascista.

L’Arsa: che porta in luoghi paludosi e inospitali nomi altisonanti come Rotschild o Agnelli.

L’Arsa: i cui profitti erano talmente alti che nessuno osava pronunciarne la cifra esatta, anche quando, al processo contro i minatori, verrà chiesto più volte”.

L’Albonese è “la provincia bolscevica dell’Istria”.
E a Santa Domenica di Albona sono sepolti i morti di uno dei più grandi disastri italiani rimossi. Il 28 febbraio 1940, perdono la vita 185 minatori.

“Per quanto Arsia sia un nome che nelle cronache del regime ricorre spesso, nessuno parla del disastro minerario.
Arsia è la palude prosciugata, l’Istria redenta, la bianca città strappata alla fuliggine del carbone dall’ostinata mano dell’uomo fascista (…) non è mai duecento persone morte in una sola notte sottoterra.
Le cronache dei giornali partolo una settimana più tardi, a cose fatte (…) E c’è qualcosa che esprima meglio il senso di una dittatura di quel buco, quel silenzio?
Il fascismo vuole eroi o martiri, corpi erculei che sfidano la montagna come nel marmo bianco delle statue o nomi da onorare in funerali di Stato e da salutare romanamente – non vuole i corpi rattrappiti nello spazio angusto di una galleria, l’imperfezione del sangue e delle urla, dei feriti in fin di vita in ospedali in cui il personale è troppo scarso; non vuole grida di accusa, non vuole sospetti, frasi riportate a mezzo stampa; non vuole che si senta che dalle bocche di quei martiri del lavoro escono parole che al regime non piacerebbero: cialtroni, assassini, merde”.

Più ci si inoltra nelle pagine di Senza salutare nessuno, più ci si rende conto della responsabilità che la sua scrittura si assume: una responsabilità che è, insieme, nei confronti del passato e del presente.

Ciò che appare non è mai soltanto in un modo: la stessa parola (comunista. slavo. italiano. Istria. profugo) in tempi e luoghi e contesti diversi, indica funzioni e percezioni anche inconciliabili, spiega il libro di Silvia Dai Pra’.
Solo la complessità, e la sua comprensione, permettono di guardare in faccia quello che siamo alla luce di tutto quello che ci ha preceduto.

Per questo Senza salutare nessuno è anche un libro di storia. Un libro più che mai necessario, in tempi come quelli in cui stiamo vivendo: perché, per cercare di capire la realtà, non è possibile ridurre, né semplificare.
Il retroterra storico che porta alle foibe è, di questa complessità, quasi un paradigma.
Due organizzazioni di resistenza partigiana: i comunisti italiani da un lato, i comunisti croati dall’altro; le deportazioni del regime fascista; i gerarchi che mollano tutto il 12 settembre; i militari che scappano o si arrendono; il comitato di salute pubblica capitanato da antifascisti di lunga data, poi messo da parte; le due bandiere (quella jugoslava con la stella rossa e il tricolore italiano) issate fianco a fianco sul municipio di Albona; e poi la colonna tedesca, in marcia verso Fiume; il massacro; i comunicati arrivati da Pisino (“la liberazione non dai fascisti e neanche dai capitalisti, ma «dal giogo degli oppressori italiani»”); gli arresti.

Finiscono, nelle carceri istriane, impiegati operai donne incinte ragazzi.

“italiani e non solo: chi perché fascista, chi perché delatore, chi perché ricco, chi perché antipatico a qualcuno, vecchie liti di confine, antiche denunce”.

Perché?
Scrive Silvia Dai Pra’:

“Forse nulla dice di più dell’insensatezza e del mistero della morte di quanto abbiamo trovato: foglie. Foglie che sono ricresciute così violente da cancellare ogni traccia di una storia che, nell’avanzare degli orrori futuri e del tempo, verrà a sua volta inghiottita dal nulla”.

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