Ilaria Palomba: letteratura, salvezza, oltre.

In Interviste, Letteratura

Una esperienza estrema cambia la percezione di sé profondamente, ma – anche – può restituire peso, senso, misura al tempo in cui si vive e alle relazioni.
Una intervista profonda, e a largo raggio, con Ilaria Palomba, autrice del romanzo “Purgatorio”: sul senso della letteratura, il potere, il ruolo del femminile in rapporto con il maschile che si soggettivizza sempre, la sopravvivenza e il dolore, i social, il corpo, il presente del “dopo”.

Lavorare sul dolore e farne materia viva, filtrandola però attraverso la letteratura, e uno scrivere raffinato, lucido e pieno di pensiero. Questa è l’elaborazione da cui Ilaria Palomba, una storia letteraria lunga ormai più di un decennio tra poesia e prosa, e solidi studi filosofici, ha tratto il suo libro più recente, Purgatorio, uscito per alterego edizioni. Una profonda e incandescente traversata letteraria degli abissi e delle pieghe di una mente passata – e di un corpo – che hanno toccato il confine tra la vita e la morte, dopo un tentativo di suicidio tramite un volo dal quarto piano e una lenta rinascita, fatta di mesi di unità spinale e di riscoperta di sé, attraverso il limite. Della sua storia e dei suoi esiti letterari abbiamo parlato, in una intervista profonda e densa.

C’è chi considera il suicidio una sorta di topos letterario...
Molti poeti si sono suicidati, i miei preferiti: Amelia Rosselli, Alessandra Pizarnik, Antonia Pozzi, Paul Celan, ma oggi è un problema endemico, e ci chiede di superare una crisi della presenza che, in termini demartiniani, sento molto radicata nella nostra società.

E chi d’altra parte, parla di coraggio.
Il coraggio per me è stato decidere, mentre stavo in ospedale, di andare avanti, affrontare la vita senza sapere cosa sarebbe successo, se mi sarei rialzata in piedi. Il coraggio in quella fase era dire “Va bene, io adesso decido di soffrire”: era un momento molto più difficile.

La letteratura è stata una salvezza o uno dei motivi che ti ha spinto a non poterne più? Gli esempi di cui parlavi hanno avuto un peso? La letteratura la vivo così come la descrive Maurice Blanchot nella Scrittura del disastro e nello Spazio letterario: un essere morti alla vita. Usare tutta la vita e quello che  vi accade per la scrittura. Del resto, allo spazio letterario si accede attraverso il disastro, le crepe, le rovine. Io non avrei mai iniziato a scrivere se non fosse stato un momento in cui facevo ordine nel caos del mio disastro. Ma non mi bastava scrivere per me, accedere a uno spazio interiore, volevo accedere al contesto  editoriale. Questa è stata la mia rovina, perché non mi sono mai sentita accolta del tutto. Non l’ho sopportato, proprio perché scrivevo per riemergere, per fare qualcos’altro della mia vita dopo un disastro che aveva a che fare con la violenza. Speravo di trovare un’alterità che non ho trovato, e la delusione è stata doppia: sono stata morta alla vita e morta anche alla letteratura.

Hai imparato qualcosa? Che c’è da fare una distinzione tra letteratura ed editoria, si può anche scrivere un sacco di libri e tenerli nel cassetto, ma è comunque letteratura. All’inizio avevo un’altra idea della letteratura, cercavo di strutturare una storia con dei personaggi, un’invenzione letteraria. Al contrario del mio secondo romanzo, un urlo contro la società, anche se parlava di personaggi immaginari, un giornalista e una performer: era nichilismo puro. Ora, dopo il trauma e una malattia cronica che si traduce in disabilità, non mi basta più. Non considero la società un luogo accogliente, né gli esseri umani buoni. Però, nonostante tutto, non posso semplicemente rifiutarmi di accettare il mondo, devo fare qualcosa.

Che compito ha allora, la letteratura? Attraverso le mie opere, che sono un doppio della vita che ha a che fare con l’inconscio, l’onirico, cerco di darne una presentazione senza la parte rappresentativa. Come dice Recalcati, dobbiamo capire quali sono gli aspetti positivi del fallimento: ci rende umani, ci fa stare con gli altri, ci permette di accedere a uno spazio comune. Se prima lo rifiutavo perché probabilmente credevo nella prospettiva del genio che si distanzia dal suo prossimo, adesso credo invece che chi scrive e abbia anche un ruolo simile a quello della psicanalisi: un compito di salvezza per gli altri. Mi sembra una necessità, altrimenti è solo una lotta tra ego.

Una consapevolezza maturata da dove? Dopo aver scritto Vuoto non avevo più le forze. Come se avessi attraversato molte vite, come se avessi bruciato molto karma. L’ospedale è stato dover affrontare tutto insieme per forza, però lo stavo già facendo nel libro, anche la guerra nell’ambiente editoriale: eppure finiva con un’apertura positiva: “Prendete questo delirio, questo macello e fatelo fiorire”. Una piccola scintilla di luce in un inferno di lotta tutti contro tutti, di relazioni tossiche, malate, dove gli altri ti diventano nemici stando insieme a te. Però nonostante tutto c’è una scintilla. Passa attraverso la casa di una persona che chiamo lo sciamano nel bosco, una specie di mediatore che fa uscire la protagonista, in termini esoterici, dall’altra parte del senso. Si tratta di una casa al confine col mondo dei morti; è un sacrificio per gli altri, e così deve essere la scrittura, per dare una luce agli altri.

Tu scrivi: “Ho con i social e con i libri le relazioni che non riesco ad avere con gli esseri umani”. E questo mi sembra che racconti molto di oggi.
Sono attratta dalle persone che incontro sui social perché non le vedo, non hanno un volto, e quindi sono la proiezione sull’altro di qualunque cosa. Ad esempio Hubert Melville in Purgatorio è una specie di Virgilio del sottosuolo, che accompagna la protagonista nel viaggio attraverso la morte; per me i social sono stati una dissipazione del mio inconscio, di qualcosa che invece doveva stare dentro oppure servire a livello letterario,  però sono stati utili per farmi conoscere, altrimenti difficilmente avrei visto il mio libro in libreria, o avrei avuto lettori. Senza social, gli scrittori di nicchia sono invisibili. Ma bisogna saper utilizzare la comunicazione, altrimenti si viene utilizzati: se racconti tutto te stesso, come io spesso ho fatto, sei bullizzato. Se li utilizzi come un diario senza filtri assorbi tanta negatività, soprattutto dai fake: nella grande maggioranza dei casi uomini che vogliono attrarre con metodi manipolatori, in un sistema in cui la donna deve essere visibile con il suo corpo mentre l’uomo può essere invisibile.

Perché?
Di solito il corpo dell’uomo non è un oggetto, non viene considerato dall’uomo stesso un oggetto. L’uomo si considera quasi sempre soggetto, mentre la donna finisce per essere considerata oggetto e spesso per considerarsi tale. Quindi in questa relazione malata chi non si nasconde è l’oggetto, il soggetto è furbo e non si mostra, non si esibisce, lascia esibire l’altro e utilizza quella esibizione.

A proposito delle donne, scrivi: “Non si tollera di una donna la bellezza, l’intelligenza, l’insubordinazione, il talento”. Quanto siamo educate a vedere in noi stesse questi stessi proprio perché il mondo non è disposto a tollerarle.
Potremmo parlarne filosoficamente, ma partendo della mia esperienza, io non mi non sono mai accettata. Quindi sono stata considerata un oggetto prima di tutto perché io mi consideravo tale. Questa, come la tensione verso la perfezione è una pulsione di morte. Ora, un simile “oggetto” fatto tutto di pulsione, di tensione alla perfezione, interessa gli uomini, che però si incazzano quando si rendono conto che invece tu sei anche un soggetto. Si innesca così un corto circuito perché o sei solo l’oggetto e allora puoi essere quella matta, bellissima, che che però magari smette di mangiare di rimanere nelle forme perfette che ti fanno restare un oggetto. Se ti assumi anche la responsabilità di mostrarti in quanto soggetto devi trovare un uomo all’altezza.

Parli più volte di sparizione, del rifiuto radicale di un ruolo e di un personaggio e poi più volte dici: “Mi sottraggo alla vita, mi nascondo di continuo”. Non trovi che anche questa sia una percezione condivisa?
Nasce da me, però l’ho molto approfondita leggendo Robert Walser e Jacob von Bunsen: attraverso i libri approfondisco riflessioni che sento ma che i grandi autori riescono a esplicitare. La sparizione ha a che fare con il senso di colpa di esistere, di creare un peso nel solo esistere, anche nel produrre. Ogni volta che scrivo un libro sento che sto aggiungendo comunque del peso, e cerco di capire in che modo posso sottrarre. Ma è un problema comune, è come se ci sentissimo amati solo se non ci siamo più. Come se riuscissimo a pensare di essere amati solo sparendo dal mondo, in caso anche morendo.

Tu dici “Sento di stare aggiungendo qualcosa di troppo”, però hai bisogno di farlo.
Vedi, io ho vissuto per tanto tempo nell’idolatria della letteratura. Ma oggi mi interessa solo se è vertiginosa, aulica, se usa una lingua difficile, complessa, bellissima, però sono arrivata a concepire la necessità esistenziale di stare al mondo, la vita come prioritaria rispetto alla letteratura. Perché la letteratura non ha bisogno della nostra vita, se non fino al punto che le serve per la scrittura. Ma dobbiamo prenderci anche cura della vita degli altri, altrimenti diventa solo un mondo mortifero, altrimenti non possiamo dare agli altri, se non ci prendiamo cura di quello che siamo.

Dici: “L’amore è l’unica vera spinta sottesa a tutto capace di farti dimenticare superare le peggiori vergogne, le peggiori le peggiori perversioni”, ma poi precisi: ”Forse sto idealizzando”.
Perché forse io mi riferisco a un amore cosmico che bisogna dare a tutti, non alla persona con cui stai. L’amore più è ossessivo e possessivo, rivolto a una sola persona, più è malato. Invece l’amore va inteso come qualcosa di curativo in termini heideggeriani.

Ti chiedi: “Il corpo è un confine, la gabbia in cui mi sento prigioniera?”. Adesso che cos’è per te il corpo e cosa è stato in questo percorso? Il corpo è spesso stato la cosa con cui combattere, ma ora è diventato molto peggio. Se prima mi sentivo prigioniera per una non adesione a un modello di bellezza che avevo in testa, una visione davvero anoressica della vita, adesso mi sento prigioniera per questioni molto più vicine alla materia rispetto all’ideale che ha l’anoressico. La libertà di movimento è cambiata. Però bilancio questa questa diminuzione rispetto al  mondo con una possibilità di ampliare le facoltà psichiche. Ho ricevuto un consiglio che poi ho assunto su me stessa: “Fai un passo indietro rispetto a questo ideale di perfezione”; riguardava tutto, ma soprattutto la magrezza: sono arrivata a pesare 47 chili dopo il matrimonio, nel 2022, prima di buttarmi dalla finestra. Per sopportare la fine insopportabile di un ideale, stavo sparendo io dal punto di vista fisico. Ma mi dava una certa energia, come se io fossi più forte di tutti i traumi che mi stavano accadendo. Quando mi hanno detto di fare un passo indietro, all’inizio l’ho avvertito come un insulto gravissimo. Per capire sono dovuta uscire da tutto, anche dalla vita. Quando sono tornata alla vita, dopo 7 mesi di ospedale, mi sono protetta un po’ di più.

Cosa ti ha insegnato, del mondo?
Gli altri non se ne accorgono, sei tu a dover vedere i tuoi confini, educarti. Lo vivo soprattutto quando dico “Io ho una disabilità e pretendo di essere vista con questa disabilità”- Se mentre scrivevo Purgatorio dicevo “Io non accetto questa disabilità”, oggi pretendo di essere vista. E invece mi sento dire “Ma no, ma non sei così disabile”, cioè: i tuoi bisogni non li voglio vedere. Finisce che chi è pieno di trafitture deve guarire chi ha solo un taglietto sul dito, sempre. Però oggi mi chiedo: perché io devo sempre aderire ai desideri degli altri? Posso permettermi di dire no? Mi dovrò assumere la responsabilità delle conseguenze. Però è un potere, di segno opposto a quello di fare tutto, ma lo è anche mettere un confine. Prima ti avrei detto “il potere è una cosa orrenda e sbagliata”, invece no, il potere è anche un piccolo agire sulla propria vita, ed è necessario

Scrivi: “Sono disabile e a un disabile non è consentito essere amato”. Come si è evoluto questo pensiero? Questo aspetto è cambiato in modo feroce. La dipendenza nella mia vita è stata abbastanza radicale. Oggi è come se sottoponessi l’altro a una serie di prove: se vuoi avere a che fare con me, soprattutto se vuoi stare con me, devi essere capace. Con le persone con cui io posso avere una relazione, non esiste più che stia alle regole dell’altro. Penso anzi di aver bisogno di un periodo di solitudine. Perché purtroppo tutto è strutturato attraverso la legge del potere. Anche il sentimento diventa una lotta servo-padrone. E io, che già sono disabile, non voglio chiedere niente a nessuno, voglio dignità.

Come si guarda il mondo dalla prospettiva del dopo? Dentro un mondo dove la gente ti considera comunque un po’ morto. Per certi versi sono morta davvero, qualcosa di me lo è, perché nessuno si ricorda quello che ho fatto prima. Non c’è, non c’è più. Quell’Ilaria è morta davvero ed è morta per tutti.

Hai scritto che ti dicevano “Preferiresti in fondo essere storpia che mediocre?” Questa frase non l’avevo focalizzata così forte, adesso che la rileggo lo è. Il bisogno di differenziarsi sempre dagli altri, e poi essere accusati di diventare il farmaco, il sacrificando di un rito sacrificale, è quello che viene definito disturbo borderline. Però ha a che fare invece con l’essere tacciata di esser sempre il diverso in qualunque comunità. E io penso che alla fine abbia anche una funzione sociale; in Purgatorio lo dico come una presa di consapevolezza: servo a voi per sentirvi puliti.

Ti chiedi anche: “Cosa resta dell’immaginario quando invece vorresti qualcosa di vero”, ma poi precisi: qualcosa di vero può esistere a una condizione che ci si accetti per ciò che si è o a prescindere da ciò che si è”. Sì, infatti, il punto è il rapporto con la verità. Per me è tremendo. Se ti guardi nudo allo specchio, nella nudità dell’anima, secondo me nessuno si accetta per quello che è. Quindi più che altro ti devi accettare nonostante.

Cosa intendi per custodirsi nella solitudine?
Deriva da un verso di Paul Celan: stare accanto agli altri avendo rispetto del tempio che siamo, che ha una delimitazione. Altrimenti è una profanazione. Non dobbiamo farci invadere, dobbiamo avere cura della nostra solitudine e della solitudine degli altri, renderla possibile; in un mondo di dipendenze reciproche è quasi impossibile lo spazio sacro, anzi santo più che sacro, santo perché è delimitato, della propria solitudine. Ma senza non c’è la creazione artistica.

Tu dici: “Non posso credere che un uomo così talentuoso sia un bastardo qualunque”.
Pensi che certe dinamiche in certi mondi non arrivino, invece sono amplificate.
Quando la cultura e l’intelligenza sono messe al servizio del male e sono prive di anima diventano mostruose, mefistofeliche: io non ho più la fascinazione che avevo prima per i letterati, anche le parole sono maschere anche quelle. Devi essere persona all’altezza di saper essere in una relazione con l’altro. Non me ne frega niente se sei un genio.

C’è un’altra domanda potente: “A cosa mi serve stare bene se non ho prospettive?” Come ti sentivi e come ti senti? Non sto benissimo. Ma sicuramente meglio, perché sono più centrata anche se si sta alzando il livello della sfida e, man mano che torni a stare tra le persone, si ripresentano le stesse prove che ti hanno portato al suicidio. Come se la vita mi volesse sfidare: “Vediamo, adesso che fai? Lo rifai da capo o vuoi veramente cambiare la tua energia, la tua anima, il tuo karma”. Sto vivendo in una dimensione altra rispetto a prima, è cambiato il mio approccio, la mia risposta emotiva a questi ostacoli.  Penso che cioè il mio dovere sia di compiere la mia esistenza e portare un po’ di luce agli altri, perché sennò non ha proprio alcun senso essere sopravvissuti. Cioè non voglio di nuovo perdere il senso dell’essere sopravvissuta. Quindi non voglio perdere Dio. Per me, senza fede non c’è neanche una ragione per cui sopravvivere. Resterebbe solo il successo personale. Purgatorio affronta molto il mio rapporto con Dio, che all’inizio sembra proprio una bestemmia; ma non si può sfidare, non funziona così. Funziona che la vita non ci appartiene, ma siamo noi che le apparteniamo, l’anima non ci appartiene, ma siamo noi che le apparteniamo e che se neghi questa cosa neghi tutto il senso dell’esistere. Il suicidio è la diretta conseguenza, come scrive Camus. La domanda più filosofica, più reale di tutte è quella sul suicidio, sul senso del sopravvivere dentro l’assurdo. Finché c’è la fede, non importa quale, senza questo legame per me ha senso vivere. Se questo legame non lo sentissi più, non ci sarebbe un perché. Se questo sentire non trova una sua collocazione, il suo perché, diventa psicosi, patologia a livelli insostenibili, diventa un dolore tremendo. Io posso vivere finché riesco a dare senso a questa esperienza e a farne tesoro, ma se non posso farne più tesoro e dargli un senso, io non posso vivere. Diventa soltanto uno strazio.

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