Sesso, amore, rete e altri disastri

In Interviste, Weekend

Tre pezzi per capire dove siamo e dove stiamo andando (anche con qualche numero statistico a illuminarci): parliamo di amore e sesso al tempo della rete, delle app, delle chat di incontri. Parliamo di letteratura e vita vera. Parliamo di come stiamo cambiando. Tenetevi forte

Di amore e di rete. Ovvero app, chat, social e di quanto tutto questo cambi le relazioni e influenzi il nostro modo di entrare e di fare all’amore. Ne abbiamo parlato molto su Cultweek, tra scritture e vita vissute, tra fiction ed esperienza e sul tramontare dell’agosto, magnifica stagione dell’eventualità o del dispiegarsi dei sentimenti, vogliamo riproporvi alcuni dei contributi su questo argomento. A cominciare dall’intervista di Arianna Montanari a Elena Stancanelli, autrice de La Femmina nuda, romanzo finalista allo Strega che segnala con nettezza l’ineludibilità dell’intreccio tra il tempo che ci è dato in sorte di vivere e le articolazioni dei sentimenti. Quella storia, quella da lei raccontata, semplicemente non si sarebbe data così in un altro tempo storico. E, dietro e dentro, molte domande e un interrogativo etico: quanto e come si può entrare nelle vite degli altri, se è così facile?

Stancanelli: la mia Anna tra virtuale e reale

La fotografia in copertina è bellissima, e così anche la citazione impressa sulla quarta. Elena Stancanelli, con il suo caschetto biondo, appare in una piccola foto in bianco e nero sull’aletta destra. Quando ho acquistato il libro ho aperto una pagina a caso e ho sgranato gli occhi. Ho messo il segnalibro al romanzo che stavo leggendo – e alla sua ossessione per la purezza e per la grandiosità americana – e in poche ore ho divorato La femmina nuda, uscita N° 1 di narrativa della Nave di Teseo, candidato allo Strega intelligente, magnetico e assolutamente chirurgico per chiunque abbia conosciuto il panico del “visualizzato alle”.

La femmina nuda parla dell’esatto contrario di ciò che solitamente consideriamo puro: parla dei corpi e di quanto siano imperfetti, infedeli, traditori eppure salvifici più di ogni altra cosa, forse proprio per questa loro capacità di lasciarsi contaminare e attraversare dal mondo. Parla di un corpo in particolare, quello di Anna, una carriera ben avviata e una relazione – stabile – con Davide.

«La relazione comincia quando i protagonisti hanno già 40 anni, non è un amore romantico e non nasce dal desiderio di costruire una famiglia. È un amore fra due adulti basato soprattutto sul corpo, sul desiderio, sull’affetto e sulla voglia di fare un pezzo di strada insieme. C’è un’intrinseca laicità nel rapporto» mi spiega l’autrice.

Ho 28 anni e per me è quasi impossibile ragionare in questi termini. Sono ancora prigioniera dell’assoluto, soprattutto in amore. Mi spiazza il fatto che Anna e Davide stiano insieme pur continuando a tradirsi, nel silenzio di una relazione che ha trovato il proprio equilibrio a partire dal compromesso. Nessuno scandalo né stridore di denti, solo una negoziazione con le inevitabili infedeltà del corpo, con la mutevolezza del piacere e del desiderio.

«Credo che le relazioni fra adulti siano inevitabilmente impure, e proprio per questo è fondamentale essere corretti. È vero che in alcuni casi la totale sincerità può essere controproducente, ma la slealtà fa precipitare tutto nello squallore: non si può agire senza tutelare l’altro e i suoi sentimenti, non ci si può imbarcare in vere e proprie storie parallele senza curarsi del fatto che tornare indietro sarà pressoché impossibile. Basta lasciare aperta una chat sul computer o dimenticarsi di cancellare la cronologia del browser per compromettere l’equilibrio. In una relazione, a diciott’anni come a cinquanta, servono cure costanti e rimangono dei confini che non possono essere attraversati».

È Davide a superare quei confini, innamorandosi di un’altra: Cane, che per tutto il libro sarà chiamata così perché, pretestuosamente, di lei sappiamo solo che ha un cane che si chiama Cane. Un nome che serve alla protagonista per sfogare almeno un briciolo di tutta la rabbia e il risentimento che nutre verso di lei. Una volta scoperto il tradimento, Anna si trasforma in una perfetta idiota: scorre per ore le foto di Cane su Facebook, spia le chat di Davide, comincia a pedinarlo grazie alla app “Trova il mio Iphone”. In una coazione a ripetere ossessiva e dolorosissima, Anna passa le giornate a immaginare il corpo del compagno unito a quello dell’amante, rapito in amplessi pieni e travolgenti che con lei, ne è sicura, non ha mai conosciuto. Per un anno intero Anna precipita nel regno dell’idiozia, prova imbarazzo per se stessa e per la sua debolezza, si lascia andare fino a non riuscire più neppure a prendersi cura di sé: non mangia, beve, fuma mille sigarette al giorno, indossa tutti i giorni gli stessi benedetti jeans.

La vicenda oscilla fra due poli: da un lato c’è il corpo, veritiero, brutale, onesto, che si fa e disfa nel contatto con il mondo, origine di ogni piacere e di ogni dolore. Dall’altra, il virtuale che torna e ritorna su se stesso, che filtra il reale a uso delle ossessioni che accende e alimenta. Gli amori degli ultimi dieci anni hanno dovuto fare i conti con spunte blu che dilatano i tempi di attesa, con fotografie di estranei che conosciamo a memoria, con commenti che fatichiamo a decifrare e che, solitamente, decifriamo nel peggiore dei modi possibili. Una spirale di ansia e di ossessione per il controllo che l’autrice ha tratteggiato con precisione e lucidità:

«Una delle cose più importanti di questa storia è il tempo in cui nasce. Immaginare una storia simile in un altro tempo è un ossimoro: le cose vanno così, e non potrebbero andare diversamente, proprio perché la vicenda è ambientata nel presente. Se l’avessi ambientata vent’anni fa, quando non c’era la rete e la differenza fra pubblico e privato era ancora ben chiara, la storia sarebbe andata molto diversamente. Ma con i social abbiamo perso di vista questa distinzione, il terreno è diventato molto più scivoloso e ci siamo ritrovati tutti più vulnerabili. Se non riconosci il confine dell’altro non hai nessuna ragione per non invaderlo, e un cellulare appoggiato sul tavolo è sempre una tentazione enorme. La facilità con cui abbiamo accesso alle vite degli altri ha affievolito la nostra etica, l’ha resa più lasca e manipolabile».

Elena Stancanelli ha raccontato gli effetti psicologici dei social network senza indulgenza né moralismo. Non teme di apparire obsoleta o conservatrice, in un mondo dove “if you don’t share it, it doesn’t exist”. Prima di fare l’intervista l’ho cercata su Facebook ma senza risultati. Le chiedo se per caso ha il profilo chiuso:

«No, non ci sono proprio su Facebook. Non mi piace l’esposizione del privato in maniera così indiscriminata, è rischioso perché non sai mai dove andrà a finire. È come staccare un pezzo di te e darlo in mano a sconosciuti. Non sai per quanto tempo rimarrà in giro, a chi arriverà e con quali implicazioni. Lo trovo pericolosissimo, oltre al fatto che non mi diverte».

Come ogni strumento di comunicazione, Facebook è anche un dispositivo che plasma il soggetto che lo utilizza e lo definisce secondo i propri meccanismi:

«Credo che sia normativo: è un meccanismo pubblicitario che rintraccia diverse categorie di persone per proporre loro dei contenuti. Se appartieni a una certa categoria sarai pressoché identico, nei gusti e nelle abitudini, a tutti gli altri membri di quella categoria. È come un giardino coi sentieri che si biforcano, ma dev’essere chiaro che si tratta solo di un simulacro, di un dispositivo. La vita è molto più complicata e deve conservare tutte le possibilità più sfumate. Quello che mi spaventa è che i due piani si confondano, ed è esattamente quello che succede ad Anna quando comincia a pensare che tutto quello che legge su Facebook sia la vita vera: va in cortocircuito e non distingue più il reale dal virtuale».

L’idiozia trasforma Anna in una monade: vede solo i fantasmi della sua immaginazione ed è incurante del mondo, che con la sua carnalità è stato escluso dall’orizzonte e rimosso. Anna si dimentica del proprio corpo, dei suoi piaceri e della sua femminilità. Soprattutto, smette di mangiare. E se l’anoressia di solito è considerata una forma di iper-controllo funzionale al superamento dei momenti critici, nel caso di Anna è più simile a una regressione all’infanzia: Anna, come una bambina, non è più in grado di badare a se stessa. Come se, in fondo, delegassimo sempre all’altro la nostra cura e il senso di responsabilità verso noi stessi dipendesse molto di più dalla sopravvivenza della coppia che dal nostro proponimento. Il meccanismo affiora quando l’altro non c’è più, e quello che rimane si ritrova, come un bambino al primo giorno d’asilo, incapace di cavarsela da solo.

«Anna sviluppa una sorta di attaccamento e di bisogno di accudimento nei confronti di Valentina, la sua migliore amica. Valentina la porta a mangiare, la tiene per mano e al ristorante ordina per due, proprio come se fosse una bambina. Quando è da sola Anna si nutre solo di cracker e succhi di frutta, che in effetti è la merenda classica dei bambini. Quando due persone si separano viene a mancare un appoggio che è anche assistenza, tutela, e tutti, sia uomini che donne, ci ritroviamo rigettati indietro in una dimensione infantile e paralizzante».

Abbandonata, depressa e alienata, Anna le prova tutte per tenersi stretto Davide. Ha bisogno di lui per continuare a reggersi in piedi. Serve allora un altro bersaglio da detestare, un mostro-schermo su cui proiettare odio e frustrazione. Il mostro è ovviamente l’altra, Cane; nelle fantasie di Anna, una vera e propria divinità del sesso. Non diversamente da Frankenstein di Mary Shelley, Anna crea un mostro (virtuale) che sfugge al suo controllo:

«Sicuramente i social e la rete sono un vero e proprio spazio psichico dentro al quale si manifestano e crescono le ossessioni, attraverso un continuo racconto del mondo. Ma quando Cane si trasforma in una persona vera, con un corpo reale, perde tutta la sua forza e non è più così imbattibile. I social funzionano benissimo come filtro magico perché eliminano la vergogna del corpo: spariscono la componente animale, la goffaggine, l’intreccio di umori, sapori, odori che fa di noi quello che siamo. Sui social rimane soltanto un’idea di sé, totalmente astratta, che modelliamo tanto per gli altri quanto per noi stessi; come se dipingessimo un ritratto su uno specchio e poi fingessimo che si tratta della nostra immagine riflessa. Creiamo degli strani Alien che buttiamo in uno spazio sconosciuto e lasciamo che agiscano da soli, ma sempre per conto nostro. Da una parte sono sicuramente più forti, più belli e più luccicanti, dall’altra sono fragilissimi e revocabili in qualsiasi istante».

Niente funziona meglio di un incontro vis à vis per uccidere un mostro virtuale, e Anna si prepara all’incontro con Cane con la stessa ritualità e la stessa cura con cui ci si preparava a una singolar tenzone. All’improvviso, la protagonista ritrova la propria femminilità e comincia, poco a poco, a riprendere possesso di sé, ma pare che lo faccia solo per mostrarsi bella agli occhi della rivale. Quindi cos’è la femminilità? Da una parte abbiamo le pubblicità della Dove che ci dicono che dobbiamo “coccolarci”. Dall’altra, quasi tutto il resto del mondo ci dice che dobbiamo essere belle e femminili per sedurre gli uomini. Qui sembra che la femminilità serva per rivaleggiare fra donne alfa:

«La storia di Anna ci dice che la femminilità non è poi così importante nella seduzione, infatti gli uomini non si accorgono neanche della sua trascuratezza, anzi. D’altra parte la femminilità non riguarda neppure il rapporto che lei intrattiene con se stessa. Forse allora la femminilità appartiene allo stesso ambito semantico del potere, si tratta di un puro e semplice esercizio di dominio. Può essere uno strumento per combattere una gara all’interno del mondo: il genere si eleva a re di un corpo, a suo tratto primario e fondamentale, e si impone sull’ambiente in cui si muove. La femminilità rappresenta quindi un modo per sentirsi di nuovo a posto con se stesse, per ritrovare il proprio fuoco senza essere in balìa del desiderio altrui».

Quando Anna incontra Cane – il corpo di Cane, il suo viso, la sua frangetta nera, le sue braccia magre, il suo seno piccolo, quella goccia di sudore che scende giù per la nuca e le appiccica i capelli – il fantasma virtuale sparisce per lasciare posto a una donna in carne e ossa, a un’altra femmina nuda «completamente priva di ogni brillantezza intellettuale. Un grado zero dell’intelligenza, anche nel corpo». Per uccidere il mostro Anna ha bisogno di banalizzare la nemica, ma se si fosse trovata di fronte un’altra donna, una donna più simile a lei, una donna intelligente, come avrebbe fatto a liberarsi della sua ossessione?

«La verità è che noi lettori non sappiamo nulla di Cane, conosciamo solo la percezione che ci restituisce Anna. Per uscire dall’idiozia Anna ha trasformato Cane in una donna che lei può tranquillamente sconfiggere grazie alla sua superiorità intellettuale. Non so cosa sarebbe accaduto se si fosse trovata davanti una donna diversa, perché in realtà non ho idea di che tipo di donna sia Cane».

Il romanzo è una lunga lettera-confessione a Valentina, l’amica che per tutto l’anno dell’idiozia si è pazientemente presa cura di Anna, ma ha sempre ignorato – o finto di ignorare – che cosa stesse realmente facendo. Idiota significa proprio “chi sta lontano dalla vita pubblica, dalla società, chi non si impegna nel confronto con gli altri”. Anna si lascia alle spalle l’idiozia con una lettera, con il confronto aperto e schietto con un’amica, con l’altro. C’è bisogno di mettersi a nudo, di essere nude, per non raccontarsele e non prendersi in giro, per non crogiolarsi nella narrazione drammatica di quello che si sta vivendo.

«Ad un certo punto del libro Anna lo dice apertamente: “Se ti avessi detto ad alta voce che cosa stavo facendo, in qualche modo avrei disattivato il meccanismo che mi spingeva a farlo”. Nella vicenda di Anna molte cose sono romanzo, racconto e narrazione di quello che accade. A un certo punto la realtà e il mondo vengono esclusi e tutto quello che succede si trasforma in letteratura di sé, dell’altro, del dolore e drammatizzazione del reale. Un meccanismo del genere si disattiva a contatto con gli altri: il confronto e la confessione ridefiniscono la misura delle cose e le giuste prospettive».

La conclusione è limpida e liberatoria. Anche la scrittura si apre, si distende, abbandona i nervosismi, le ansietà e le ossessioni compulsive dell’idiozia. Quei pensieri che non si possono controllare e che vanno dove vogliono vengono superati da una consapevolezza gioiosa e serena del corpo: «Il sesso: ecco tutto l’incanto necessario», recita l’epigrafe di Philip Roth. Dopo aver sezionato e osservato al microscopio tutte le debolezze e le cretinerie a cui può abbandonarsi una donna che perde un amore, Elena Stancanelli trova nel corpo la via di fuga e il ritorno a sé. Le chiedo quale libro consiglierebbe a una donna che si è persa, e la risposta non mi stupisce poi tanto:

«I romanzi di Elena Ferrante. Sono davvero bellissimi ed è una gioia leggerli; raccontano un rapporto tra due donne, entrambe intelligentissime ma molto diverse, e lo contestualizzano dentro a esistenze complesse che attraversano cinquant’anni di storia. Quando una donna entra in un meccanismo ossessivo comincia a cullarsi nella stupidità, che è molto comoda e costa poca fatica. Ma l’intelligenza è l’antidoto migliore a ogni deriva ossessiva, e nei romanzi della Ferrante le risorse femminili non si esauriscono mai: le protagoniste trovano sempre, da qualche parte, la forza, a volte l’astuzia, per superare le difficoltà e rimettersi in carreggiata».

E se parliamo di intelligenza femminile, qui parliamo di un romanzo candidato al Premio Strega (vinto poi da Albinati con La scuola cattolica, ndr)

«È una cosa davvero bella perché si tratta dello Strega e noi siamo una piccola casa editrice. Perché sono una donna e spesso si è detto che le donne non hanno ruoli significativi dentro allo Strega. E poi perché in questo momento c’è un grosso rivolgimento all’interno dei gruppi editoriali, e ogni volta che ci sono dei sommovimenti si crea lo spazio affinché emergano delle cose buone. Prima erano tutti giganti, ora la situazione è più movimentata e potrebbe esserci qualche possibilità in più per le realtà piccole. Alla Nave di Teseo c’è una donna appassionatissima che si carica sulle spalle un’avventura e la porta avanti con trasporto infinito, e che abbia deciso di andare allo Strega con il mio libro è una sfida alla Davide e Golia che mi emoziona e mi diverte tanto».

Arianna Montanari, 6 giugno 2016

LE APP e noi, senza paura

Ma le app per incontrarsi ci hanno cambiato? E c’è ancora spazio per il colpo di fulmine? Chi le usa e chi non ce la fa proprio prova a rispondere 

Non è che siamo proiettivi: gli smartphone ci giudicano davvero. Così accanto all’icona della categoria “Viaggi”, con le app di Airbnb e BlaBlaCar che testimoniano una sensibilità ecologica up to date, può spuntare anche l’etichetta riassuntiva del nostro fallimento sentimentale: “Stile di vita”, in cui si radunano Tinder, Happn, e a volte anche Grindr, che fissa con occhi impietosi dietro la sua maschera veneziana stile Eyes Wide Shut. E allora, coprendoci con una maschera, dialoghiamo, senza distinzioni di sesso, età e orientamento sessuale.

PROLOGO. Non c’erano una volta le app, ma le chat già sì. Un’assolata domenica pomeriggio di giugno, anni fa, con la luce meridiana che acceca il libro su cui tento di studiare per un esame. Quindi Esiodo, con la sua stella Sirio, si sbagliava: il caldo non mi sfianca affatto e anzi concludo che d’estate non solo le donne, ma anche gli uomini sono più dissoluti. Così rinuncio persino ad andare al mare con un’amica per incontrare uno conosciuto in chat. Forte di una sua fotografia proporzionata, mi smazzo cinque chilometri di vialoni fumanti per raggiungerlo. Il consueto tremore di ginocchia, ma la voce al citofono, primo contatto, mi rassicura. Salgo. Mi apre un nano. Sembra uno dei soprammobili del suo appartamento da vecchia zia inglese: teiere e ceramiche varie ovunque, tappezzeria rosa, pizzi e merletti. Così deluso scappo, senza nemmeno scoprire se i nani «siano i più forniti della virtù meno apparente», come disse De André. Non pensavo di essere di vedute così ristrette.

QUELLO, GIOVANE, CHE LE USA. Le app hanno cambiato le relazioni? Centinaia di articoli, video su Vice, addirittura la copertina di Internazionale dicono di sì. Così veniamo inondati di analisi sociologiche e statistiche su tutti gli utenti che si ritrovano in appartamenti ignoti per accoppiarsi con perfetti estranei.

Sarà che nel mondo gay l’anonimato è di routine, ma forse questa mobilitazione di idee e argomenti è esagerata. Dalle scritte nelle toilette, ai luoghi d’incontro nei parchi, ai cinema meno frequentati: tutte location di zuffe più o meno anonime dove ci si fa le ossa per passare all’altra sponda, o ci si tiene in allenamento una volta che si è raggiunta. Certo una app è più comoda, sempre a disposizione e senza biglietto d’ingresso, ma non per forza apre a differenze qualitative nel modo di incontrare persone, comunicare o fare sesso. Basta chiedere a chi ha risposto in passato ad annunci nei bagni pubblici, o a chi usava le chat di incontri di dieci anni fa, ormai morenti. Lessico e sintassi sono i medesimi: chi era esplicito lo è rimasto e i più timidi sono sempre timidi, poi c’è chi guarda e basta, chi lo fa ma col senso di colpa, chi ne è dipendente o indipendente.

Forse, andando molto più indietro, la grande rivoluzione l’hanno fatta l’esigenza di sintesi degli SMS e, ancora di più, l’istantanea disponibilità di Messenger e poi di Skype. È da qui che potrebbe venire fuori una nuova e articolata classificazione di relazioni, di comportamenti, ma soprattutto di linguaggi. Cellulari sotto il cuscino in attesa di un messaggio fatto di sole principali, attacchi di panico se l’utente desiderato è online, con conseguente disperazione quando è offline, ore di conversazione con perfetti estranei, faccine a più non posso, con primitivi tentativi di renderle sempre meno pudiche (oggi il mondo è spartito tra chi usa la melanzana e chi la pannocchia).

Ma tornando al presente, viene da dire che con Grindr o Tinder è solo più semplice mandarsi foto da ogni dove e di ogni dove, senza le scomode webcam di dieci anni fa e con una risoluzione migliore degli antichi primi cellulari con fotocamera. E certo, se si è fortunati si può anche beccare il nuovo vicino di casa carino incrociato in ascensore. Ma, vicini esclusi, i pericoli di sviste non diminuiscono nemmeno con le centinaia di kilobyte di immagini inviate, così come non fa sconti la tensione per chi ci sarà dietro quella porta.

INTERMEZZO. In enoteca con amici apro distrattamente Tinder. Sarà almeno un quarto d’ora che non ho lo smartphone in mano, ma nonostante il “device bon ton” che tento di rispettare, mi prendo il rischio di fare la figura del maleducato postmoderno. Forse coinvolgendo i miei amici nella mia attività di ricerca me la potrei cavare. Ed ecco che si fa avanti un utente con una richiesta insolita: «Pago per leccarti i piedi». Normalmente lo ignorerei, ma la compagnia mi spinge goliardicamente a trattare sul prezzo. Così chiedo cinquecento euro per il trattamento, manco fossi Cenerentola. L’utente medita e rilancia con duecento, domandandomi però di non azzardare nemmeno a lavarmi prima di andare da lui. A quel punto chiudo la chat, non per disgusto ma perché non sono certo degno di uno che prende le cose tanto seriamente.

QUELLO, GIOVANE, CHE NON LE USA. Eppure i social network, e già i loro antenati, le chat, qualcosa devono averlo cambiato. Se anche possiamo pensare che la quantità, nel campo dell’intimità, non alteri la qualità, e cioè: incontrarsi con uno sconosciuto fa sempre tremare le ginocchia, spaventa, turba, come un tempo succedeva (specialmente nel mondo omosessuale, recluso alla clandestinità) fuori dalle caserme, nei cinema, nei bagni della Feltrinelli, nei bagni della Stazione Centrale, c’è, proprio nelle locations, qualcosa di radicalmente diverso. L’asse è stato spostato da un campo pubblico o semi-pubblico, entro cui si costituiva una comunità dell’emarginazione, all’intimo della propria dimora. Se anche il rischio non è diminuito (o forse è aumentato), la percezione sociale dell’eversione è radicalmente inferiore. Perché che in quei luoghi si facessero cose turche e turpi lo sapeva ogni sciura che si rispetti. Sarà anche per questo che oggi gli omosessuali possono richiedere diritti? Perché, come gli etero, possono fare le sporcaccionate a casa loro, come prescrive la più solida morale borghese?

QUELLA, AGÉE, CHE HA INIZIATO A USARLE. L’App è ben nascosta in un contenitore utility, che non si veda troppo; è meglio. La apro ogni tanto, guardo i contatti, ma non rispondo: a una certa età manca il coraggio e forse anche la mentalità giusta…o sono io a essere fuori giri. Una volta ci chiamavano zitelle: c’era del vero; non in senso dispregiativo, s’intende. È che di rimettermi in gioco non ho più la forza: tu come sei, io come sono… e poi siamo fatti male. L’uno per l’altro almeno, me lo sento. Comunque, la mia scheda, compilata tra boh e forse, non mi somiglia pe’ niente. Non ho nemmeno messo la foto. È un bene, un male, non saprei. Tant’è, sono iscritta da due mesi e non ho risposto a nessuno.

XYZ m’invita a una partita a tennis, l’ultimo maschio ad averlo fatto aveva solo dieci anni. Io a questo rispondo, e che cavolo, sì. Non è una spataffiata o un rompighiaccio, che fa molto basic instinct. È una partita a tennis. Io gioco.

LIETO FINE. Per chi è in cerca di un lieto fine. O meglio, per chi pensa che gli altri episodi non abbiano lieti fini, c’è anche quella storia del colpo di fulmine, che le app non hanno cancellato. Così può anche avvenire che A vede B in biblioteca. Poi si fa coraggio e aggiunge B su Facebook. B lo accetta, ma senza sconti gli scrive «Scusa, ci conosciamo?». A, orgoglioso: «No, infatti, non so perché ti ho aggiunto». «Ah, ok, | beh | allora, ciao». Preso il coraggio a due mani, A, prima di vedersi relegato più in basso della friendzone: «A meno che tu non sia un principe azzurro». Fumetto che scrive. Cancella. Scrive. «Non ho una carrozza, ma posso venirti a prendere domani in macchina».

Cristiana Bernasconi, Giulio Dalvit, Mattia L. Palma, 13-2-2016

Le Esplorazioni di Aziz Ansari

Quando puoi raggiungere chiunque nel mondo perché accontentarsi? Perché rischiare di stare con una persona che potrebbe non essere la migliore per te? La risposta sembrerebbe scontata e invece…Tra relazioni virtuali, online dating, sexting e Tinder  fatevi condurre per mano da Aziz Ansari (e non solo): riderete ma ci penserete su

A Milano, apparentemente, il 40% della popolazione è single (sì, siamo proprio in tanti). E la situazione non è molto differente nel resto del mondo occidentale: in America le coppie sono in minoranza per la prima volta nella storia (e l’americano medio trascorre più anni da single che da sposato) e nelle grandi città è sempre più diffuso fra gli adulti avere dei coinquilini. Uno dei motivi è abbastanza ovvio: l’età matrimoniale si è alzata, non ci si sposa a 21 anni, come è stato grossomodo fra il 1950 e il 1980; ora l’età media, negli USA è 30 per gli uomini e 27-28 per le donne.

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E la situazione italiana, a giudicare dai dati ISTAT, è per lo più identica (come lo è nel resto d’Europa dove, secondo l’Eurostat, l’età media è 29,7).

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Secondo le tesi di svariati sociologi le ragioni di questo cambiamento stanno nella diversa concezione del matrimonio: negli anni Cinquanta aspettare il vero amore era un lusso che in molti (specialmente donne) non potevano permettersi. Stephanie Coontz, autrice del libro Marriage, a history, sostiene che fino a poco tempo fa il matrimonio era principalmente un modo per acquistare sicurezza, economica, sociale e personale. Era un modo per le donne di lasciare la casa paterna: “Il matrimonio era un’istituzione economica e politica troppo vitale per poter nascere solamente sulle basi di qualcosa di irrazionale come l’amore”.

Il panorama è oggi molto mutato: il matrimonio non è visto più una priorità e la scelta del partner è diventata una vera e propria caccia all’anima gemella – ricerca che può rivelarsi lunga, frustrante e faticosa. Già dalla fine degli anni Settanta, in America, questo modello inizia a farsi largo, tanto che, negli anni ’80,  il 91% delle donne poteva dire che il prerequisito fondamentale per sposarsi era l’amore romantico, quello da farfalle nello stomaco e mani sudaticce. Ma se l’età media matrimoniale ha continuato ad aumentare  significa che qualcosa è cambiato.

Quando, nel 1989 al CERN di Ginevra, Tim Berners-Lee, inizia a pensare di progettare un software per la condivisione di documentazione scientifica in formato elettronico (che poi sarebbe diventato il World Wide Web), di sicuro non immaginava che questa sua idea avrebbe rivoluzionato i nostri rapporti di coppia. Ma così è stato: come scrive Aziz Ansari nel suo divertentissimo Modern Romance, “oggi se possiedi un smartphone stai trasportando un bar per single, aperto h24, nella tua tasca”.

E, infatti, se fino a qualche decennio fa la maggior parte delle coppie erano formate da persone che vivevano nello stesso quartiere, ora probabilmente faremo fatica a trovarne: provate a pensare ai vostri amici! Internet ha aumentato in modo esponenziale la possibilità di conoscere nuove persone e trovare la nostra anima gemella. Quando puoi letteralmente raggiungere chiunque nel mondo perché accontentarsi? Perché rischiare di stare con una persona che potrebbe non essere la migliore per me? Internet non ci ha semplicemente aiutato a trovare il meglio; ha anche contribuito a formare l’idea che c’è un meglio e se cerchiamo con impegno possiamo trovarlo. Quindi meglio non affrettarsi nel matrimonio, sperimentare, uscire anche ogni sera con una persona diversa: e con le dating app diventa sempre più facile. Uno studio di Michael Rosenfeld mostra che nel 2010 il 22% delle coppie si sono conosciute online (il 34% secondo John Cacioppo), percentuale che sale al 70% nel caso di coppie omosessuali.

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Quanto questa percezione si stia diffondendo al livello di immaginario collettivo lo testimoniano bene le così dette Millennial sitcom: da Girls a Looking, passando per Love e Master of None, assistiamo a molte di quelle situazioni descritte da Ansari e Klinenberg in Modern Romance. Dating app, sexting (che si sta rivelando una pratica sempre più diffusa, che alcuni vedono positivamente, altri meno), messaggi visualizzati e non risposti, stalking su Google, confezione dell’SMS perfetto e così via… Compresi quei messaggi al limite fra il troll e l’anche-stasera-si-scopa-domani che dubito abbiano mai avuto qualche reale successo nel rimediare una sveltina (e le pagine Facebook come Tinder nightmares e I Gentlemen di Grindr ne offrono un nutrito campionario):

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D’altronde Tinder sembra davvero un gioco e lo fa notare anche Ansari: “Inutile negarlo. C’è qualcosa di stranamente divertente e ludico in Tinder”, nello scorrere le facce degli utenti alla ricerca di una sveltina o un partner per la vita. E, a quanto pare, passiamo circa un’ora e mezza al giorno sulle app che alcuni di noi tengono in una cartella nascosta del cellulare, nella speranza di trovare la persona giusta fra le centinaia di profili che visitiamo ogni giorno. Questa proliferazione di possibilità potrebbe però non avere risvolti sempre positivi: Barry Schwartz nel suo libro The Paradox of Choice sostiene che gli smartphone e Internet hanno liberato le nostre opzioni dai luoghi fisici: possiamo scegliere qualsiasi cosa da qualsiasi parte del mondo (basti pensare che il mio cellulare è prodotto da una startup cinese con un magazzino a Londra per la distribuzione europea e non è venduto in nessun luogo fisico in Italia). Ma, evidenzia Schwartz, quando abbiamo più opzioni, siamo in realtà meno soddisfatti e spesso fare delle scelte, prendere delle decisioni è diventato più difficile. Se anche a voi è capitato di passare così tanto tempo su TripAdvisor per scegliere un posto dove cenare e alla fine ritrovarsi in un McDonald’s perché tutti i locali, nel frattempo, hanno chiuso, forse Schwartz non ha del tutto torto. Oppure: quante volte vi siete addormentati davanti al pc mentre cercavate per ore su ImDb un film che valesse davvero la pena vedere? Anzi: il miglior film che avreste potuto vedere in quel momento.

Secondo Ansari questa mentalità è diventata pervasiva nei nostri processi decisionali, anche nella ricerca di un partner, specialmente di uno lungo termine (e lo stesso discorso può valere per la ricerca del lavoro). Sheena Iyengar, docente alla Columbia University, attraverso una serie di esperimenti ha dimostrato che un eccesso di opzioni può portare all’indecisione e alla paralisi. Che sia anche questo uno dei motivi per cui tendiamo a sposarci sempre più tardi? Ansari sembra suggerire di sì, ma da comico qual è ammette anche che with all these options, being single can be a shitload of fun!

E allora quello che con un’espressione un po’ vintage potremmo chiamare “metter su famiglia” (o anche solo le radici) diventa un vero e proprio upgrade problem. Lo spettro del “è davvero la persona giusta per me?” può essere molto più che dispettoso, soprattutto passata la fase passionale iniziale, quella dei lepidotteri e delle mani sudate e appiccicose. Ansari e Klinenberg spiegano che, nella prima fase di una relazione, provi l’amore passionale (passionate love): ogni sorriso ti fa sciogliere il cuore e ogni notte è più magica della precedente. Durante questa fase il cervello si attiva e rilascia una serie di neurotrasmettitori: le sinapsi neurali si riempiono di dopamina, lo stesso trasmettitore rilasciato quando tiri di coca (o giochi a World of Warcraft).

“Carol, I can’t describe how you make me feel. Wait, no, I can – you make my mind realease pleasure-inducing neurotransmitters and you’ve flooded my mind with dopamine.”

Secondo gli scienziati questa fase dura fra i dodici e i diciotto mesi, a quel punto all’amore passionale succede quello che chiamano companionate love, meno intenso, ma cresce nel tempo – come ha dimostrato l’antropologa Helen Fisher nel suo Anatomy of Love, radiografando il cervello di persone sposate da almeno vent’anni.

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Non spaventiamoci però: il calo della passione non è una cosa necessariamente negativa in toto. Secondo lo psicologo Jonathan Haidt ci sono due modi per intendere la soddisfazione: da un lato c’è la visione edonistica, per la quale la vita migliore sarebbe quella con il maggior grado di passione. Dall’altro c’è la visione narrativa: la vita migliore è costruirsi una storia.

Ma tutti sappiamo quanto sia difficile la strada narrativa, e forse in questo panorama così saturo di opzioni lo è anche di più. Ansari nota come sia diventato più facile il tradimento grazie alle nuove tecnologie, ma si chiede, intelligentemente, se anche questa sia una cosa completamente da disprezzare: in Francia, il paese con il più alto grado di infedeltà, le relazioni extra-coniugali sono ritenute moralmente inaccettabili “solamente” dal 47% della popolazione, in Germania la percentuale è del 60%, 64% in Italia, 84% negli Usa.

In un interessantissimo libro del 2003, Against Love. A Polemic, la sociologa Laura Kipnis parla in modo positivo del tradimento – termine che in questo contesto risulta non del tutto appropriato – e arriva anche a suggerire di “rileggere il Capitale considerandolo una guida al matrimonio”.

Da allora si è discusso molto della teoria del Poliamore, la posizione filosofica che ammette la possibilità che una persona abbia più relazioni intime (sentimentali e/o sessuali) contemporaneamente, nel pieno consenso di tutti i partner coinvolti, in opposizione al postulato della monogamia sociale come norma necessaria (e anche qui c’è chi giudica positivamente questa teoria e chi, invece, specie da posizioni marxiste ortodosse, ne evidenzia il carattere negativo, come ha mostrato Alessandro Lolli su Prismo).

poliamore

Helen Fisher ritiene che i nostri antenati – gli uomini delle caverne – avessero simultaneamente diversi partner sessuali, spinti dalla necessità di diffondere il loro materiale genetico, e, dopo migliaia di anni di promiscuità i nostri cervelli sono ancora in linea con l’idea di “accoppiarsi” con più persone. D’altronde, secondo la storica del matrimonio Stephanie Coontz, l’idea di matrimonio monogamico è abbastanza recente e nel diciottesimo secolo gli americani erano abbastanza aperti sulle loro scappatelle extraconiugali. Cos’è cambiato allora? Il giornalista Dan Savage sostiene che le donne, giustamente, a un certo punto, hanno iniziato a contestare la prerogativa maschile di poter saltare da un letto all’altro indisturbatamente, mentre loro erano recluse a casa senza alternative sessuali. Ma a quel punto, piuttosto che estendere alle donne il privilegio maschile, la società ha deciso di attuare l’approccio opposto, iniziando a limitare anche gli uomini. Secondo Savage that’s bullshit: una relazione è molto più che non toccare nessun altro con il tuo pene per il resto della tua vita. Per questo Savage ha coniato il termine “monogamish” con il quale definisce la sua relazione con la moglie: la coppia è devota, c’è impegno e amore, si costruisce qualcosa insieme, una storia (una visione narrativa, per riprendere il discorso di Haidt). Ma c’è spazio anche per attività sessuali fuori dalla coppia. Sembra ragionevole. Meno ragionevole è sembrato a Patrick, protagonista di Looking, che decide di lasciare il suo fidanzato quando questi gli chiede di prendere in considerazione una possibilità del genere.

Looking è una serie TV di due stagioni andata in onda fra il 2014 e il 2015. Patrick è un ragazzo di 29 anni che vive a San Francisco, alla ricerca dell’anima gemella e di successo professionale. In questa estenuante ricerca le prova davvero tutte: dal più classico approccio da bar, alle app di dating online, fino addirittura al cruising. Sperimenta il sexting, la lunga e angosciante attesa fra un messaggio e l’altro. E non è mai davvero sicuro che il suo partner del momento sia davvero la persona giusta per lui.

C’è una scena che mi sono trovato a guardare più volte con un forte senso di deja vu e che sta lentamente diventando un topos delle rappresentazioni televisive e cinematografiche della vita dei millenials: lo scambio di voti in un matrimonio. Avviene quasi sempre allo stesso modo – e ne parla anche Ansari raccontando la sua esperienza personale in Master of None: il protagonista è invitato al matrimonio di due suoi cari amici, l’atmosfera è felice, tutti sorridono. Arriva il fatidico momento, inizia a sentirsi un dolce vento di sottofondo per creare atmosfera, la luce si fa più chiara, splende sui volti degli sposi che iniziano a scambiarsi i voti nuziali mentre sorridono e i loro occhi tralucono felicità. Stacco: inquadratura del volto sgomento del protagonista, occhi strabuzzati, cervello in tilt: ma quello che ho io con il mio partner è davvero così forte? Così intenso? Potrei dire le stesse cose di lui/lei in questo momento? No. I due si lasciano. Perché non sono il meglio che potrebbero avere.

Modern Romance di Ansari e Klinenberg rappresenta davvero bene tutto questo contesto: le relazioni virtuali, l’online dating, le app di incontri, il disagio delle chat istantanee. Dà una rappresentazione della ricerca del partner ideale in cui molti di noi non farebbero fatica a riconoscersi, con dati e statistiche che mettono in luce l’evoluzione dei rapporti di coppia. E vi faccio una confessione: non mi ricordo l’ultima volta che ho letto un libro che mi ha fatto davvero ridere. Ansari ci è riuscito parlando di cose serie.

Giuseppe Carrara, 18-6-2016

 

Immagine di copertina: Love di Julio Ignacio Olivares

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