Scandalo: doppio incubo famigliare di Schnitzler

In Teatro

Dopo aver girato l’Italia «Scandalo» di Schnitzler (in originale «L’eredità») arriva a Milano raccontando la tragica storia di una famiglia votata all’ipocrisia e al perbenismo…

Noi contemporanei, educati alla scuola delle telenovele buoniste in cui qualunque cosa uno possa aver commesso (aborto, divorzio, adulterio e simili brutte storie) alla fine ci si ritrova tutti davanti a un bel piatto di rigatoni, possiamo teoricamente assistere con sguardo rassicurato a uno spettacolo così dichiaratamente ambientato in un altro secolo, e che come sovrappiù ha per titolo una parola che, ormai da tempo, attribuiamo per lo più a fatti di corruzione o di malagestione della cosa pubblica, o al limite (ma bisogna essere veramente prude) a situazioni che sfociano nell’orgia e nel sadomasochismo.

Scandalo. Usato per descrivere una situazione famigliare il termine rischia di apparire talmente vetusto da sfiorare il ridicolo, ed ecco apparire nella nostra mente l’immagine di una signora vestita da sceneggiato anni ’50 che sibilando in direzione della giovane che – per esempio – ha avuto un figlio fuori dal matrimonio esclama rivolta a un’amica “Oh, mia cara, è un vero scandalo!”.

Noi non siamo più così. A spazzare il campo da simili retrograde isterie è intervenuta da tempo un’altra parola. Tolleranza. La società oggi è aperta, i costumi sono rinnovati, finito il tempo in cui se si scantonava appena dalla rigidissima morale condivisa si veniva ostracizzati senza appello.

E si ha buon gioco, volendo trovare in questo spettacolo un’allusione ai nostri tempi, a paragonare la protagonista, semmai, a una giovane immigrata messa al bando da una società intimamente razzista.

Infatti Scandalo (ma il titolo originale è L’eredità), bel testo di Arthur Schnitzler messo in scena da Franco Però con Stefania Rocca, Franco Castellano, Filippo Borghi, Adriano Braidotti, Federica De Benedettis, Ester Galazzi, Andrea Germani, Lara Komar, Riccardo Maranzana, Astrid Meloni, Alessio Bernardi e Artur Cocetta, racconta del giovane rampollo di una buona famiglia borghese il quale, in fin di vita dopo una brutta caduta da cavallo, rivela ai parenti di avere un figlio di cinque anni da una ragazza e li prega, dopo la sua morte, di accoglierli in casa. Ed ecco, fra mille conflitti e resistenze, fra la generale disapprovazione, che tutti si sforzano di essere aperti, liberali, pietosi, finché qualcosa di terribile non verrà, provvidenzialmente, a far tornare tutto come si deve.

Lo spettacolo soffre della prova a tratti approssimativa di alcuni attori, il pubblico in più di un’occasione sente che le battute sono battute, parole pronunciate su un palcoscenico, e molte ingenuità interpretative rischiano di provocare una certa uniformità di colori, mentre al contrario in altri momenti la compagnia azzecca il ritmo e la temperatura emotiva, e gli spettatori sono coinvolti dal dolore che accompagna tutta la pièce, il dolore di accettare che i nostri cari siano diversi da come noi volevamo.

Così come – a guardar bene – siamo diversi anche noi.

Infatti questi personaggi, dobbiamo ammettere – magari solo nell’intimo della nostra interiorità, tanto non ci vede nessuno – lungi dal lasciarci indifferenti come rappresentanti di un’umanità d’altri tempi, non rappresentano altri che noi. La tolleranza che eleviamo a dogma della nostra vita sociale soffre spesso di una grave tara che nelle forme più gravi la porta ad assumere il proprio significato letterale.

Tolleriamo perché, tutti insieme, al fine di andare oltre i viscerali conflitti fra classi che hanno dilaniato fino a tempi recentissimi le nostre comunità, abbiamo stabilito con un atto di volontà che ciò che scandalizzava i nostri nonni non ha il minimo effetto su di noi. Che basta dire di essere immuni dal perbenismo per esserlo davvero.

Ma se vogliamo andare avanti sul serio, se vogliamo liberarci del giudizio che si scatena nella nostra mente contro chi vive diversamente da come noi crediamo che si dovrebbe vivere – tranquilli, siete sempre da soli con la vostra coscienza – forse è meglio essere supremamente intolleranti prima di tutto nei nostri stessi confronti, e ammettere che ancora oggi, in barba a tutte le pubblicità progresso, si agita in molti di noi lo spettro del come si deve, della concezione borghese della famiglia, di mille altri atteggiamenti che ci sforziamo con un sorriso nervoso di nascondere sotto il rigonfio tappeto della tolleranza, che ormai butta polvere da tutte le parti.

Forse, ci suggerisce Schnitzler, facendo i conti con questi spettri invece di negare la loro esistenza pur di non doverci vergognare, pur di non sentirci a nostra volta “diversi” in mezzo a una maggioranza che, in apparenza, non ha il minimo pregiudizio nei confronti di chicchessia, forse così, anche solo provando a chiederci come agiremmo noi al posto di un altro, potremo smettere di essere persone dabbene che tollerano e trasformarci in esseri umani che nell’accogliere chi non si comporta come loro accolgono anche quella parte di sé stessi che, in circostanze diverse, si comporterebbe esattamente allo stesso modo.

Per il video si ringrazia CTB Centro Teatrale Bresciano

Scandalo, di Arthur Schnitzler, al Teatro dell’Elfo fino al 19 febbraio

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