Sanremo Indiscreto: 1951-2014

In Musica, Weekend

La scena e i retroscena del Festival e dei suoi protagonisti, dagli albori a oggi

Il festival della canzone italiana sotto i riflettori e dietro le quinte. Breve storia, pettegola quanto basta, dell’odiosamata kermesse. Si va a incominciare.

1951 – Nilla Pizzi
Alle origini di tutto c’è lei, Adonilla Pizzi in arte Nilla (1919-2011), bolognese di Sant’Agata e regina della canzone. Che trionfa nella prima edizione con Grazie dei fior. È anche seconda e terza in coppia con Achille Togliani, il bell’Achille seduttore di ballerine. Nilla ha una storia con lui – ne ha avuto una anche con Luciano Benevene – che fa ingelosire il maestro Cinico Angelini, datore di lavoro e amante ufficiale. Flirt e canzoni: Nilla torna a fare il pieno nel 1952, prima classificata con la patriottica Vola colomba che piace tanto alla Dc, seconda con Papaveri e papere che il Pci usa per la sua campagna elettorale, terza con Una donna prega che accontenta le parrocchie. Quando, qualche anno dopo, contende Gino Latilla alla consorte Carla Boni, Angelini la caccia dalla sua orchestra. Poco male, Nilla mantiene intatta la popolarità per tutto il decennio, poi emigra ad Acapulco dove apre un night per miliardari, tra i frequentatori c’è anche Frank Sinatra.

1954 – Gino Latilla
E ti pareva che non fossero tutte belle le mamme del mondo quando un bambino si stringono al cuor? Il barese Gino Latilla (1926-2011) nel 1954 s’illumina di melenso e vince. È anche terzo con la trucida E la barca tornò sola di Mario Ruccione – ne farà un’esilarante parodia Renato Carosone –, fascistissimo autore di Faccetta nera e La sagra di Giarabub e fornitore ufficiale di molte ugola d’oro sanremesi. Latilla, che ha tentato il suicidio per amore di Nilla Pizzi, avrà buona popolarità per tutto il decennio. Poi diventerà dirigente Rai. Negli anni Ottanta tornerà agli onori delle cronache quando si troverà anche il suo nome nella lista degli iscritti alla loggia massonica segreta P2 di Licio Gelli.

1955 – Claudio Villa
La regina c’è, mancava il reuccio. E nel 1955 arriva il trasteverino Claudio Pica in arte Claudio Villa (1926-1987), figlio di un calzolaio e di un’orlatrice, comunista che si fa cucire le canzoni addosso dal fascista Ruccione: il nazionalpopolare, insomma. Il suo primo Sanremo, Villa lo vince in contumacia con Buongiorno tristezza, assieme al tenorino napoletano Tullio Pane. Nella serata finale infatti dà forfait, ha avuto un malore, chissà se è vero: ma il pubblico lo chiama a gran voce, la giuria acconsente a far portare in sua vece un giradischi sul palco, le signore si asciugano gli occhi e sventolano i fazzoletti, è l’apoteosi. Claudio Villa vincerà ancora tre volte: nel 1957 con Corde della mia chitarra ancora di Ruccione, nel 1962 in tandem con il detestato Modugno, nel 1967 con Iva Zanicchi. Polemico, aggressivo e vittimista, tenace difensore del belcanto contro le schifezze moderniste, il reuccio sarà il rompicoglioni pubblico numero uno di Sanremo.

1958 – Domenico Modugno
L’irruzione della modernità, la rivoluzione o quasi (in quegli anni i veri rivoluzionari, Renato Carosone e Fred Buscaglione, stanno alla larga da Sanremo) ha la faccia del pugliese Domenico Modugno (1928-1994), che fino a quel momento si è inventato cantante siciliano con un suggestivo grammelot meridionale e ha fatto qualche misurata incursione in lingua (Musetto, Vecchio frac).
Dipingendosi le mani e la faccia di blu e volando come un innamorato di Chagall, Modugno trionfa in patria e, cosa mai successa prima a una nostra canzone, conquista la classifica americana, primo per tredici settimane. Nel blu, dipinto di blu vende 24 milioni di dischi in tutto il mondo e Modugno si prepara a rivincere nel 1959 (Piove). Vincerà ancora due volte, nel 1962 e nel 1966, ormai arreso a formule più svenevoli. In quel 1958 ci sono anche l’ultimo successo di Nilla Pizzi, L’edera (i più irriverenti intoneranno una parodia maliziosa: “Son qui, seduta sul bidet, che mi rinfresco l’edera”). E la canzone-scandalo Tua, interpretata con raffinatezze jazz e movenze che ai censori paiono scandalosamente conturbanti da Jula De Palma. Non basta a salvarla l’interpretazione castigatissima della “caramellaia di Novi Ligure” Tonina Torrielli, di lì a qualche anno l’emergente Mina ne offrirà una versione, parola di Edmondo Berselli, gioiosamente scopereccia. Trovate tutte e tre le versione su Youtube, andatevele a cercare.

1961 – Adriano Celentano
Anni di “progresso senza avventure”, come in un fortunato slogan democristiano. Nel 1960 vince Romantica (il “tradizionale” Rascel e l’urlatore Tony Dallara in accoppiata), nel 1961 ancora vecchio e nuovo a braccetto con Al di là: il melodiosissimo Luciano Tajoli assieme alla cotonata Betty Curtis che per urlare a pieni polmoni sgancia i ferretti del reggiseno. Il vincitore morale è però il secondo classificato Adriano Celentano, che scala le classifiche con 24.000 baci.

In quell’anno c’è anche la prima e unica partecipazione a Sanremo di Anna Maria Mazzini in arte Mina, cremonese, studentessa di ragioneria, con Le mille bolle blu. Due teppisti, Celentano e Mina: lui con le contorsioni sul palco, lei con l’aria da finta tonta. La intervista Oriana Fallaci e Mina la prende in giro senza che l’insopportabile toscana se ne accorga. La intervista Mario Soldati e ci casca anche lui. «Che cosa legge, signorina?». «Ah, leggo soltanto Paperino». Lui, con aria grave: «Anche molti intellettuali lo leggono». Mina, candida e sfrontata: «E lo capiscono?»

1964 – Gigliola Cinquetti
Anche qui, una vincitrice ufficiale e un vincitore morale. Prima classificata la minorenne veronese Gigliola Cinquetti che non ha l’età per amare (due anni dopo rivincerà con Modugno, l’età ormai ce l’ha, e allora: Dio, come ti amo!), primo nei negozi di dischi il diciannove Roberto Satti in arte Bobby Solo con Una lacrima sul viso: al festival lo hanno penalizzato perché, in preda al mal di gola, ha cantato in playback. Aria di novità, a Sanremo, anche nella confezione. Chiusa da tempo la lunga era di Nunzio Filogamo (“Cari amici vicini e lontani, buonasera ovunque voi siate”) è il primo festival di Mike Bongiorno, che presenterà per undici edizioni, l’ultima nel 1997. Ed è la prima volta degli stranieri in accoppiata con gli italiani: molti i dimenticabili e i dimenticati (Patricia Carli che vince con la Cinquetti, i Fraternity Brothers, Frida Boccara, Peter Kraus, Richard Moser), qualche medio calibro (Paul Anka, Gene Pitney al fianco dei Rolling Stones nel loro album di esordio) e un grande, Ben E. King che fraternizza con Tony Dallara.

1966 – Caterina Caselli
Da qualche anno, la canzone che vince e quella (o quelle) che si impongono non coincidono più. Qui vincono Modugno e la Cinquetti, si impone Caterina Casco d’Oro Caselli con la sfacciata, esuberante Nessuno mi può giudicare.

Viene eliminato a sorpresa e tra mille polemiche, ma trionfa nelle vendite, Adriano Celentano con Il ragazzo della via Gluck. Eliminato anche l’esordiente Lucio Dalla (Pafff… bum) con gli Yardbirds: Mike Bongiorno li presenta come “I Gallinacci”, nella band anzi nel “complesso” per usare la terminologia dell’epoca suonano Jeff Beck ed Eric Clapton. Scartata infine l’Equipe 84 (Un giorno tu mi cercherai) in accoppiata con gli inglesi Renegades, che dopo aver tentato la fortuna in Finlandia piantano le tende in Italia.

1967 – Luigi Tenco
Il colpo di pistola con cui Luigi Tenco si uccide in seguito all’eliminazione di Ciao, amore ciao marchia a fuoco il festival. Autore senza successo di canzoni meravigliose, Tenco ottiene per tragico paradosso, con un brano onesto e che non meritava l’eliminazione ma che non era fra le sue cose migliori, con un’interpretazione per di più stralunata, la consacrazione postuma.

Molti gli eliminati di peso, in quell’anno: Caterina Caselli con Sonny & Cher (Il cammino di ogni speranza), la bellissima Ma Piano di Gianni Meccia interpretata da Nico Fidenco e Cher, Modugno, addirittura una composizione dell’astro emergente Lucio Battisti, la bruttina Non prego per me interpretata da Mino Reitano e dagli Hollies di Graham Nash. Vince l’insipida Non pensare a me (Claudio Villa e Iva Zanicchi), finaliste alcune canzoni di protesta all’acqua di rose – è la “linea verde” di Mogol, siamo contro ma senza comprometterci troppo – come Proposta dei Giganti (“Mettete dei fiori nei vostri cannoni”) e La rivoluzione di Gianni Pettenati (“Si farà la rivoluzione, neppure un cannone però sparerà”), i Rokes e Lucio Dalla fanno saggia propedeutica scaramantica (Bisogna saper perdere), Gian Pieretti e Antoine scopiazzano Dylan (Pietre). La canzone più bella, una delle più belle di sempre a Sanremo, la scrivono Umberto Bindi e Franco Califano: è La musica è finita, la porta in finale Ornella Vanoni.

1968 – Louis Armstrong
Vince Canzone per te di Sergio Endrigo in coppia con il brasiliano Roberto Carlos (“La festa appena incominciata è già finita, il cielo non è più con noi…”): è il massimo risultato sanremese della canzone d’autore, finora Gino Paoli e Bruno Lauzi, Giorgio Gaber e Umberto Bindi hanno ottenuto al massimo qualche buon piazzamento medio, per non parlare del povero Tenco. Endrigo non si scompone: dice che ha scritto una canzone abbastanza brutta da piacere al pubblico. Quando si dice l’understatement.

Gli occhi di tutti sono però puntati su Louis Armstrong, venuto in Riviera perché gli hanno offerto 15 milioni e può finalmente rifarsi la dentiera. La canzone è Mi va di cantare, Satchmo lo storpia gioiosamente, sul palco tenta di improvvisare anche una jam e lo trascinano via quasi di peso. Che altro? Ah sì, è il primo Sanremo di Pippo Baudo, Celentano rompe con Don Backy (secondo e terzo come autore) che lo accusa di truffarlo sui diritti d’autore, c’è l’esordio di Al Bano (eliminato), un nuovo Mogol-Battisti (La farfalla impazzita, eliminato), fuori anche l’incazzatissimo Domenico Modugno. E, sì, debutta come autore Roberto Vecchioni: la canzone è Sera, niente male, affidata alla Cinquetti e a Giuliana Valci.

1969 – Lucio Battisti
Non c’era Matteo Salvini nei dintorni, se nel 1969 poteva vincere Zingara, cantata da Iva Zanicchi che per l’occasione ha perso tre chili e da Bobby Solo (“Prendi questa mano, zingara, dimmi pure che destino avrò”: fra gli autori anche Gianni Morandi, uncredited) e se nel 1971 poteva imporsi Il cuore è uno zingaro (Nicola di Bari e Nada) dopo la parentesi conformistica di Celentano nel 1970 (Chi non lavora non fa l’amore). Endrigo è secondo con Lontano dagli occhi, Lucio Battisti alla sua prima e unica apparizione a Sanremo (Un’avventura, con Wilson Pickett) va in finale ma non fa il botto.

Debutta Rosanna Fratello, eliminata, e soprattutto debutta Nada con Ma che freddo fa. Claudio Villa ha già sfoderato gli artigli: “Se mi eliminano è la fine della canzone italiana”. Lo eliminano, Meglio una sera piangere da solo scivola via senza lasciare grandi ricordi, mentre l’autore e cointerprete Mino Reitano grida al complotto. Eliminata anche Gabriella Ferri, assieme a Stevie Wonder (Se tu ragazzo mio).

1971 -Lucio Dalla
Scivolata via anche la vittoria antisciopero di Celentano del 1970, il 1971 vede sfilare cuori zingari e, soprattutto, teneri dropout. Terza, ma vincitrice morale, è 4/3/1943 di Lucio Dalla: una madre sedicenne incinta di un soldato nemico, un adulto con un nome inconsueto: “E ancora adesso che gioco a carte e bevo vino, fra i ladri e le puttane sono Gesù Bambino”. Doppia censura Rai al testo: il titolo originale, Gesù Bambino, viene rifiutato, troppo audace per i compagnucci della parrocchietta, “fra i ladri e le puttane” diventa un più rassicurante “fra la gente del porto”.

Sì, poco dopo il ’68 la censura è ancora viva e vegeta: tre anni più tardi, al Disco per l’Estate, l’esordiente Francesco De Gregori, arrivato peraltro ultimo, si vede censurare un verso della splendida Alice: “il mendicante arabo ha un cancro nel cappello”. Un cancro? Andiamo, al massimo “ha qualcosa nel cappello”. A parte l’exploit di Dalla, del festival si ricorda poco: al massimo Che sarà (Ricchi e Poveri con José Feliciano), e tutto il resto è educata noia. Curiosità, ci sono Piero Focaccia e i Mungo Jerry che cantano l’abbastanza atroce Santo Antonio Santo Francisco: l’autore è Paolo Conte, peccati di gioventù.

1973 – Le Figlie del Vento
Sono gli anni di Nicola di Bari (I giorni dell’arcobaleno, 1972) e di Peppino di Capri (Un grande amore e niente più, 1973). Poco altro da ricordare: Piazza Grande di Lucio Dalla, 1972, soltanto in finale, Come le viole di Peppino Gagliardi, 1972, qualche anno fa l’ha rifatta Giuliano Palma, l’esordio di Ivano Fossati con i progressive naif Delirium (Jezahel, 1972, un milione di dischi venduti), quello di Marcella sempre nel 1972 (Montagne verdi), quello di Roberto Vecchioni fino allora soltanto autore (L’uomo che si gioca il cielo a dadi, 1973).

Il resto è educato rumore di fondo, con l’eccezione della demenziale Sugli sugli bane bane del quartetto femminile meneghin-pugliese Le Figlie del Vento: “Sugli sugli bane bane tu miscugli le banane, le misugli in salsa verde, chi le mangia nulla perde”. Troppo bella per essere vera, troppo scema per essere vera.

1979 – Mino Vergnaghi
Tra il 1974 e il 1979 l’appeal del festival si appanna, gli ascolti calano, la qualità tocca il fondo. Vincono Iva Zanicchi (1974), Gilda (1975, chi l’ha più sentita?), Peppino di Capri (1976), gli Homo Sapiens (1977), i Matia Bazar (1978, sono ancora quelli alla Mister mandarino, Vacanze romane deve ancora arrivare), e nel 1979, con Amare, tale Mino Vergnaghi, protegé della Zanicchi. Scomparirà senza lasciare tracce, Vergnaghi, per riaffiorare dieci anni dopo come corista e coautore di Zucchero (c’è anche la sua firma su Diamante, mica da buttare via).

Qualche nome di quegli anni sconclusionati, vecchia guardia sfiatata a parte? Emanuela Cortesi, Valentina Greco, I Domodossola, Kambiz, Antonella Bottazzi, Rossella, Sonia, Franco e le Piccole Donne, Eugenio Alberti, Laura, Paola Folzini, Eva 2000, Annagloria, Antonella Bellan, alzi la mano chi ne ricorda uno. Sfogliando gli elenchi sono poche, pochissime le canzoni che combattono con l’amnesia: la gerontofila Gli occhi di tua madre di Sandro Giacobbe (1976), la melensa Tu mi rubi l’anima dei Collage (1977), la notevole C’è una ragione di Anna Oxa (1978, l’ha scritta Ivano Fossati), Gianna di Rino Gaetano (1978), la bella e sciroccata A me mi piace vivere alla grande di Franco Fanigliulo (1979). Intanto, dal 1977, il palcoscenico è quello del Teatro Ariston.

1981 – Alice
Nel 1980 si impone con Solo noi Toto Cutugno, singolare sintesi caratteriale e artistica di Claudio Villa e Adriano Celentano: ruvido, polemico, abbastanza vittimista. Ha successo di cassetta, ambirebbe anche al consenso critico e invece con la stampa è un continuo beccarsi e magari sarà anche colpa dei giornalisti, che non colgono il genio di “buongiorno Italia gli spaghetti al dente e un partigiano per presidente” e ci vedono soltanto un calcolato esercizio di paraculaggine. Comunque, dopo questo trionfo Cutugno farà la parte dell’eterno secondo, spesso ringhioso. Il festival del 1980, più che Cutugno, è il Woytilaccio di Roberto Benigni e il suo lunghissimo bacio (45 secondi, dicono i cronometristi) a Olimpia Carlisi. Altra musica nel 1981, quando Franco Battiato cuce addosso ad Alice, già Alice Visconti e già Carla Bissi (“Il vento caldo dell’estate mi sta portando via”), il tormentone pop-beethoveniano Per Elisa, destinato a scalare rapidamente le classifiche. Sul versante nazionalpop, si fanno notare Pupo, non ancora bigamo e giocatore compulsivo (Su di noi, 1980), e Loretta Goggi (Maledetta primavera, 1981). Due esordi notevoli: Edoardo de Crescenzo (Ancora) e Fiorella Mannoia (Caffè nero bollente).

1983 – Matia Bazar
Tutt’altro che immortali le canzoni che vincono nel 1982 (Storie di tutti i giorni, Riccardo Fogli) e nel 1983 (Sarà quel che sarà, Tiziana Rivale). Riccardo Fogli è stato qualche anno prima la gioia dei giornali gossipari: ha lasciato per Patty Pravo i Pooh e la moglie Viola Valentino, bella senza voce risarcita facendola diventare cantante (“Comprami, io sono in vendita, e non mi credere irraggiungibile”, qualcuno ricorda?). Viola Valentino partecipa anche a queste due edizioni: come se non avesse cantato. Il tormentone del periodo è Felicità della coppia Al Bano-Romina, in seguito parodiato a destra facendolo diventare inno proto-leghista (“Felicità/è picchiare un terrone/con un bastone, la felicità…”). Che altro c’è? Un frate molesto, Giuseppe Cionfoli (Solo grazie, nell’83 Shalom), L’italiano di Toto Cutugno solo finalista (1983), due esordi importanti: Zucchero Fornaciari (Una notte che vola via, 1982) e Vasco Rossi (Vado al massimo, stesso anno). E tre canzoni bellissime, destinate a restare negli annali: Margherita non lo sa di Dori Ghezzi (1983), Vacanze romane dei Matia Bazar (1983) e E non finisce mica il cielo scritta da Ivano Fossati per Mia Martini: la canzone vince il premio della critica, istituito proprio in quel 1982 e dal 1996 dedicato alla grande e sfortunata Mia.

1986 – Eros Ramazzotti
Che cosa ci si può aspettare da un festival che nel 1983 quasi neanche si accorge di un capolavoro come Vita spericolata di Vasco Rossi? Che fa lavorare le giurie soltanto per le “giovani promesse” (in gara con una sezione ad hoc dal 1984) mentre per i big si affida al Totip? Pochino, e infatti vincono Al Bano e Romina (Ci sarà, 1984) e i Ricchi e Poveri (Se m’innamoro, 1985). Scossone nel 1986 con la vittoria di Eros Ramazzotti, romano della borgata di Cinecittà, 23 anni: Adesso tu arriva dopo la vittoria del 1984 tra i giovani (Terra promessa) e un buon piazzamento nel 1985 (Una storia importante), incoronando un divo pop da globalizzazione imminente, buono anche per l’export.

Per il resto, molto colore e poca sostanza: gli operai dell’Italsider sul palco, il pancione (finto) di Loredana Bertè, la mise da geisha di Patty Pravo, il vedo-non vedo di Anna Oxa, le polemiche sul playback, Fiordaliso che non vuole mica la luna, Mannoia che spiega come si cambia per non morire, Zucchero ultimo con donne (du-du-du) in cerca di guai, Renzo Arbore secondo nell’86 con la goliardata Il clarinetto.

1988 – Figli di Bubba
Gruppi e ammucchiate canore, a seconda dei casi, irripetibili o improbabili. È irripetibile, nel 1988, il trio Morandi-Ruggeri-Tozzi che vince a mani basse con l’inno buonista Si può dare di più (immancabile la parodia, “Si può darla di più”, destinata a questa o quella protagonista dei film a luci rossastre).

Improbabili, ma deliziosi, i Figli di Bubba (il giornalista Roberto Gatti, il critico Alberto Tonti, i comici Enzo Braschi e Sergio Vastano, i musicisti Mauro Pagani e Franz Di Cioccio, il produttore Roberto Manfredi). Cantano Nella valle dei Timbales: “Andrò laggiù nella valle dei timbales/ tra peones, marones, salmones, daiquiri e bonbons/ laggiù dove la femmina è procace/ vivace, mordace, fugace, vorace lo so/ laggiù senza il 740/ Celentano non canta/ la Carrà non c’è più”. Per Beniamino Placido è la canzone di Sanremo 1988 (vince Massimo Ranieri con Perdere l’amore). Da segnalare la doppietta di Fiorella Mannoia Quello che le donne non dicono (1987) e Le notti di maggio (1988). Nel luna park degli orrori, Nostalgia canaglia di Al Bano e Romina. Il festival del 1987 ha record di sempre nello share, nel 1988 presenta Beppe Grillo: è rimasto in quarantena per un anno a causa di una battuta sui socialisti, ma è tornato subito, anche se sul “bando perenne” dalla Rai costruirà una carriera teatral-politica: il chiagne e fotte, in Italia, è sport e scienza nazionale.

1994 – Andrea Bocelli
Tra scandali, accuse di mazzette, rinvii a giudizio per corruzione, il festival va avanti. Pupo, eliminato nel 1992, rivela che nel 1984 si è comprato il quarto posto acquistando schedine del Totip per 75 milioni. La novità è che la macchina del tempo è stata riparata: nazionalpopolare sì, ancora e sempre, ma almeno non fuori tempo massimo. Si premiamo, insomma, divi del momento: Anna Oxa nel 1989 (Ti lascerò, con Fausto Leali), i Pooh (1990, Uomini soli), Riccardo Cocciante (1991, Se stiamo insieme), il romanino garbatino Luca Barbarossa (1992, Portami a ballare), Enrico Ruggeri (1993, Mistero). Nel 1994, a sorpresa, vincono due non vedenti: Aleandro Baldi fra i big (Non amarmi) e Andrea Bocelli fra i giovani (Il mare calmo della sera).

Debutta a Sanremo Enzo Jannacci (Se me lo dicevi prima, 1989; nel 1991 si presenterà con Ute Lemper, nel 1994 con Paolo Rossi). Jovanotti, non più ragazzino scemo e non ancora maestrino del pensiero, va in scena nel 1989 con la ruffiana e perbenista Vasco, Mia Martini porterà al festival due delle sue canzoni più note (Almeno tu nell’universo, 1989, e Gli uomini non cambiano, 1992), Raf Che cosa resterà degli anni ’80 (1989). Rivelazioni: i Tazenda (Spunta la luna dal monte con Pierangelo Bertoli, 1991), Marco Masini con l’enfatica Perché lo fai sulla droga nel 1991 (la ribattezzeranno “Perché ci fai”), Jo Squillo ex punk con Sabrina Salerno (“Siamo donne, oltre le gonne c’è di più”, 1991), Giorgio Faletti non ancora bestsellerista secondo nel 1994 con “minchia signor tenente”. Nel 1993, la sezione giovani incorona l’ultima grande diva del pop italiano emersa da Sanremo, Laura Pausini, la canzone è La solitudine.

1997 – Patty Pravo
Si prosegue fra alti e bassi, con molte invenzioni estemporanee a beneficio delle telecamere. C’è l’aspirante suicida in balconata, Anna Falchi pronta a giurare che “Guardo il mare” in finlandese si dice “Cacca merda”, Valeria Marini “oca per contratto”. C’è un nuovo gruppo estemporaneo, La Riserva Indiana, che accompagna Sabina Guzzanti in Troppo sole nel 1995: lo compongono Mario Capanna, Nichi Vendola, David Riondino e Sandro Curzi, non piace neppure a sinistra. Nel 1995 vince la brava Giorgia, buon prodotto sanremese (Come saprei), nel 1996 Ron che saccheggia a mani basse i sonetti di Shakespeare (Vorrei incontrarti fra cent’anni), nel 1997 gli sconosciuti Jalisse (Fiumi di parole) che spariranno subito senza suscitare rimpianti. Il mischione fra giovani e campioni ormai livella il festival verso il chi se ne frega. Si salvano in pochi: Andrea Bocelli che spicca il volo (Con te partirò), il duetto di Morandi con Barbara Cola (In amore, 1995), Carmen Consoli (Confusa e felice, 1996), un tormentone di Nek (Laura non c’è, 1997), l’esilarante La terra dei cachi di Elio e le Storie Tese (1996). E soprattutto l’imprevedibile e ondivaga Patty Pravo, per una volta strepitosa con E dimmi che non vuoi morire (1997), scritta per lei da Vasco Rossi e Gaetano Curreri degli Stadio.

2001 – Elisa

Un 1998 senza storia (vince Annalisa Minetti, giovane e non vedente), un 1999 televisivamente rutilante (conduce Fabio Fazio con Laetitia Casta e il Nobel Renato Dulbecco, fra gli ospiti Gorbacev e gli U2) e musicalmente inerte, vincono Anna Oxa e, tra i giovani, Alex Britti, ma la canzone più emozionante, fuori concorso, è Mio fratello che guardi il mondo di Ivano Fossati, dedicata agli extracomunitari. È preceduta da una frase della “Lettera agli ebrei” di San Paolo: “Non dimenticate di essere ospitali con gli stranieri, perché alcuni hanno ospitato degli angeli senza saperlo”. Prevedibili i mal di pancia fascioleghisti, e infatti il leghista Borghezio protesta con il presidente della commissione di vigilanza Rai, il fascista Storace.

Nel 2000, anno secondo dell’era Fazio, gli Avion Travel prevalgono (Sentimento) grazie alla giuria di qualità (fra gli altri, ne fanno parte Goran Bregovic e Dario Argento), nel voto popolare sono undicesimi. Tra gli emergenti ci sono Bersani, Gazzè, Irene Grandi, i Subsonica e i Tiromancino, tra i nuovi che sembrano antichi c’è il neomelodico Gigi D’Alessio. Nel 2001, via Fazio e dentro la Carrà (notevolissima la presentazione del trucido rapper bianco Eminem, ospite della kermesse: “È un ragazzo bisognoso d’affetto”), trionfa la friulana Elisa Toffoli, per brevità Elisa: finora aveva cantato in inglese, l’esordio italiano Luci (Tramonti a Nord Est) è farina del sacco di Zucchero, che ha scritto anche la canzone seconda classificata, Di sole e d’azzurro affidata a Giorgia.

2014 – Arisa
Anni veloci, anni tiepidi. Anni televisivi, anni irrilevanti. C’è un viavai di presentatori (Carrà, Ventura, Bonolis, Chiambretti, Panariello, Baudo, Fazio, Bongiorno, Conti), un alternarsi sul podio di vecchie glorie un po’ sfiatate, nuovi astri non proprio irresistibili, nuovissimi presi in prestito da “Amici” di Maria De Filippi e da “X Factor”. Così nel 2002 vincono i Matia Bazar, nel 2003 Alexia. Nel 2004 che è la seconda edizione meno vista di sempre (38,98% di share) e la più boicottata dai discografici, primo è Marco Masini. Poi, avanti un altro, è il turno di Francesco Renga sposo di Ambra Angiolini (2005), dell’imbarazzate Povia (2006), ma nel 2009 farà di peggio con l’omofoba Luca era gay), del dignitoso Simone Cristicchi (2007), di Giò di Tonno e Lola Ponce (2008, la canzone è di Gianna Nannini e l’edizione è la più disertata di sempre dagli spettatori, solo il 36,56% di share), di Marco Carta (2009) e Valerio Scanu (2010). Breve pausa di qualità con Roberto Vecchioni (2011, ma Chiamami ancora amore non è tra le sue cose migliori: più che altro un premio alla carriera), poi Emma senza i Modà (2012), Marco Mengoni (2013), Arisa (2014) e Il Volo (2015). Resta qualcosa? Pochissimo. Di Vecchioni ho detto, a me vengono in mente soltanto Daniele Silvestri (Salirò, 2002, e la gaglioffa e divertente La paranza, 2007), Alex Britti (7000 caffè, 2003), Sergio Cammariere cugino di Rino Gaetano, che piaceva tanto a Fausto Bertinotti (Tutto quello che un uomo, 2003), la gran voce di Arisa (Controvento, 2014, with a little help from Mauro Pagani). Le infamie in compenso sono molte, una almeno va ricordata ed è la tirata patriottarda Italia amore mio (2010) di Pupo con l’inutile Emanuele Filiberto Savoia Saclà, già testimonial dei sottaceti.

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