Roma tra siccità, blatte e pandemia: la (dis)umana commedia di Virzì

In Cinema

Il regista toscano firma un coraggioso esperimento di film collettivo sullo sfondo di una città e di un’umanità in putrefazione. Nessuno accetta più il proprio status sociale e coniugale, qualcuno l’ha perso e qualcuno lo vuole rifiutare, cercando rifugio tra le braccia di altri e altre. Ma il futuro è per tutti un buco nero. Il cast è di qualità, da Valerio Mastandrea a Claudia Pandolfi, da Tommaso Ragno a Silvio Orlando, da Max Tortora a Sara Serraiocco, da Monica Bellucci a Vinicio Marchioni

La commedia corale, più o meno drammatica, è piuttosto difficile da maneggiare al cinema, soprattutto se rimanda a metafore sociali o esistenziali ampie, quelle apprezzate nei suoi esiti più ambiziosi e riusciti (Altman, Renoir). Non è un caso se la commedia all’italiana classica, di cui Paolo Virzì è giustamente ritenuto un titolato erede contemporaneo, l’ha maneggiata con parsimonia e attenzione: un caso virtuoso è per esempio il Monicelli di Parenti serpenti e Speriamo che sia femmina. Perché può essere rischioso abbandonare la classica traccia del soggetto a due, tre protagonisti, spesso supportati da attori di alta caratura, graditi al grande pubblico, per affrontare la sfida di descrivere un gran numero di caratteri, le cui storie all’inizio sembrano divise, distanti, ma poi si riuniscono, in coppie e terzetti, poco a poco, disgelando una trama, un senso generale dell’affresco. E cercando alla fine di tirare i fili di tutte le vite e le vicende, quasi eduardianamente, facendo emergere un significato globale, perfino una morale.

In Siccità, l’ultimo dei 15 film del regista livornese di Ovo Sodo (Leone d’argento a Venezia 97), La prima cosa bella e Il capitale umano, appena passato alla Mostra di Venezia, storie e caratteri si collocano in una Roma distrutta dall’assenza di acqua, che dura da tre anni, colpita da una oscura malattie che miete molte vittime e infestata di blatte, dove gli esseri tendono a perdere il poco di umano che è rimasto dentro di loro, e spesso anche il lume della ragione. A partire da Valerio Mastandrea (che di base fa soprattutto Mastandrea), ex autista di auto blu istituzionali riciclatosi conducente su prenotazione, in lotta contro i colpi di sonno e le presenze fantasmatiche di genitori (deliziosi Paola Tiziana Cruciani e Gianni Di Gregorio) e primi ministri.

All’opposto sta Tommaso Ragno, egocentrico attore disoccupato riciclatosi influencer politico da social, la cui moglie Elena Lietti si divide tra il lavoro di cassiera al supermercato e la relazione clandestina con il gelido avvocato Vinicio Marchioni, sposato col personaggio forse più amaramente compiuto del film, l’intensa Claudia Pandolfi, primaria detta Terminator che durante l’epidemia finirà per ragionare sulla società e la sua famiglia. In cui c’è una figlia musicista, la brava Emma Fasano (Maledetta Primavera), che guida il lato giovane del cast insieme a Sara Serraiocco, a sua volta giovane dottoressa impegnata nell’ospedale, incinta del bodyguard violento Gabriel Montesi, poco di buono che sciaguratamente incrocia Emanuela Fanelli, rampolla di una spregiudicata famiglia imprenditoriale, destinata a una brutta fine. E ancora Silvio Orlando, carcerato per l’omicidio della sua compagna che non vuol tornare alla vita civile e quando per sbaglio lo fa si trova schiacciato da un presente assurdo e un passato traumatico da riaffrontare, il bravo Max Tortora, miserabile ex commerciante di camicie in bancarotta che vive in auto col cane e si fa pagare la pizza da un immigrato dopo averlo insultato, e Monica Bellucci la quale con impunita autoironia fa sé stessa seducendo il professore vanesio e corruttibile Diego Ribon.

Non di uno strato sociale, neanche vagamente omogeneo, si tratta, ma di tanti casi, più di uno psichico, di molti poveracci rovinati spesso in senso materiale, ma non solo, quasi tutti schiavi del proprio egoismo sociale o mentale. Molto diversi ma uniti dalla loro aridità, dalla disillusione verso presente e futuro, dal disincanto rispetto alla prospettiva di continuare a convivere con mogli, mariti, figli da tempo spariti dai loro orizzonti emotivi, quasi tutti poveri e infantili. Ha detto una cosa vera e intelligente Virzì nel descrivere l’impianto di base del film: “Di fronte alle difficoltà, anche catastrofiche, le distanze sociali finiscono per accentuarsi. Si alimentano conflitti, verso una dimensione che non è più quella della rabbia, della lotta felice che in qualche modo ha nutrito la mia generazione, ma una rabbia sorda che sembra portare all’autodistruzione”. Lo stesso, assai dubbio e relativo, happy end finale ha radici assai più cinematografiche che narrative: “Ci sarà una salvezza? Forse sì, ma solamente se ci riconnettiamo. È un film catastrofico, apocalittico in un certo senso, ma non si può raccontare senza la speranza”.

Nel film trapelano citazioni (Silvio Orlando a tratti sembra rifare Dustin Hoffman in Rainman), soprattutto su un terreno assai frequentato come il disfacimento di Roma, che per certi versi è pure minore nelle sequenze quasi fantascientifiche del film che nella realtà, da La grande bellezza a molte Rome disfatte nei film di Fellini e di altri. In un plot così dichiaratamente realistico/irrealistico si fanno largo toni macchiettistici ma anche ritorni alla cronaca – come lo scienziato ambientalista da video, palese parodia dei virologi che hanno presidiato i nostri schermi domestici per due anni – a comporre però un’insieme che più fiction non potrebbe essere, anche un po’ in senso televisivo, il che non è necessariamente una notazione negativa, ma in qualche momento lo è. 

Si è scritto, parlato molto della siccità come riferimento al covid, cosa avvalorata dallo slogan guida “Romacelafarà” ispirato al celebre “Andrà tutto bene” degli anni pandemici veri, e dal fatto che il soggetto e la sceneggiatura Virzì li ha scritti con Paolo Giordano, giornalista e narratore fine dei giorni dell’emergenza sanitaria, insieme a Francesca Archibugi e Francesco Piccolo. Per la durata temporale della vicenda e l’esito della siccità di dividere le persone, rinchiuderle nel proprio mondo, se non proprio nelle loro case com’è avvenuto a tutti noi con il Coronavirus. Ma la psicosi da paura e indifferenza verso gli altri sembra qui un sostrato psicologico di base, dei personaggi: certamente è acuito dall’emergenza che pare non aver fine, ma sembra in qualche modo essersi formato prima della scomparsa dell’acqua. Affonda le radici nel passaggio del tempo, nell’inaridirsi delle passioni, dei legami affettivi con le persone in teoria più vicine. Ha origini lontane. E tra le sequenze più belle del film ci sono infatti quelle del greto del Tevere, nudo, privato del suo fiume, da cui affiorano reperti di un’antichità gloriosa, e non solo sul piano artistico, un’età dell’oro che appare con ogni evidenza lontana anni luce dal presente.  

Siccità, di Paolo Virzì, con Claudia Pandolfi, Valerio Mastandrea, Silvio Orlando, Elena Lietti, Tommaso Ragno, Vinicio Marchioni, Monica Bellucci, Diego Ribon, Max Tortora, Emanuela Fanelli, Gabriel Montesi, Sara Serraiocco, Liliana Fiorelli, Emma Fasano

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