Ritratto dell’artista da morto Italia ‘41 – Argentina ‘78

In Teatro

Foto © Masiar Pasquali

In scena al Piccolo Teatro Studio fino al 6 aprile, uno spettacolo sul potere della narrazione e sulla forza che le parole hanno avuto e avranno sempre sul nostro modo di ricordare

Per definizione, un resoconto storico è parziale: un po’ perché chi racconta lo fa inevitabilmente dal proprio punto di vista e un po’ perché lo scarto tra il momento in cui si vive un fatto e il momento in cui si tenta di raccontarlo determina quasi certamente un’approssimazione. Davide Carnevali costruisce tutto il suo spettacolo sulla pluralità insita in quell’approssimazione, sulle enormi possibilità che lo scarto tra vita e racconto offre. Potremmo dire che fa teatro proprio sulle crepe che quello scarto crea nella nostra realtà.

Ma andiamo con ordine: lo spettacolo documentario Ritratto dell’artista da morto, scritto e diretto da Davide Carnevali, tesse fin dai primi minuti una fitta trama di eventi che sembra unire indissolubilmente un pianista ebreo che scompare in Italia nel 1941 a un compositore dissidente che scompare in Argentina nel 1978. Il racconto procede quasi come un giallo, raccogliendo indizi ed elaborando teorie, oscillando costantemente tra la finzione narrativa e gli episodi autobiografici in essa contenuti.

Davide Carnevali, infatti, ha scritto il testo con l’obiettivo che si adatti all’attore che di volta in volta lo porterà in scena: in questa nuova produzione del Piccolo Teatro è Michele Riondino a dare voce e forma alle parole di Carnevali, e lo fa presentandosi lui stesso come parte in causa nella storia dello spettacolo, anzi, nella storia della creazione dello spettacolo.

Tutto comincia addirittura prima che il testo sia pronto, quando era ancora solo una manciata di date prenotate su un cartellone futuro del Piccolo Teatro, senza titolo né un’idea chiara del soggetto.

Riondino racconta della lettera che gli annuncia un’improvvisa eredità e di un altrettanto improvvisato viaggio a Buenos Aires. Da qui in poi, come una matrioska che nasconde sempre una dimensione più piccola, la storia procede per sottrazioni, e per scomparse, fino a trovare il nocciolo duro di ogni totalitarismo: il silenzio.

Ad accomunare l’Italia del fascismo e l’Argentina dei desaparecidos è proprio questo silenzio: l’assenza di notizie, l’impossibilità di chiedere, la necessità di tacere. Ritratto dell’artista da morto indaga a fondo il ripetersi nel corso della Storia di crudeli tentativi di cancellarne una parte, riducendo al silenzio il ricordo e la voce del perseguitato del caso: un pianista ebreo prima, un dissidente politico poi.

Davide Carnevali costruisce un racconto scenico perfetto, in cui lo spettatore è chiamato ad ascoltare il ricordo e la voce di chi è stato cancellato, grazie al casuale legame che lo scomparso aveva con l’attore protagonista del racconto.

Ad aiutare Riondino nel dipanarsi di queste storie nella Storia c’è la scenografia, a cura di Charlotte Pistorius, che permette allo spettatore di vedere il luogo del crimine e di conoscerne ogni dettaglio, come se la possibilità di avvicinarsi fisicamente allo spazio dell’azione criminale aprisse riflessioni diverse, forse più vere, sullo svolgersi stesso di quell’azione.

Certo è che lo spettatore viene chiamato a entrare nella scena: metaforicamente per tutta la prima parte dello spettacolo, in cui Riondino presenta una serie di prove e testimonianze, come un detective deciso a risolvere il mistero; letteralmente alla fine, quando lo spazio dell’appartamento dove si svolge l’azione viene aperto al pubblico, come se fossero stati tolti i sigilli da una scena del crimine e i curiosi ci si potessero finalmente riversare.

Quello che più mi ha colpita, come parte del pubblico in sala, è stato il coinvolgimento che quella chiamata a entrare nello spettacolo ha generato. Riflettendoci dopo, con la mente sgombra dall’emozione del momento e il testo teatrale sotto gli occhi, ho capito che Carnevali è riuscito a costruire una messinscena sulla manipolazione, sul potere delle parole e sulla forza che il racconto ha avuto e avrà sempre nella storia dell’uomo.

Una messinscena in cui, tra i protagonisti, ci siamo anche noi tutti seduti ad ascoltare quel racconto. Carnevali, proprio attraverso l’evidenza del potere delle parole, che sperimentiamo in prima persona come parte integrante dello spettacolo, ci consegna una profonda riflessione sul silenzio a cui riducono sempre i totalitarismi e ci lascia con molte domande.

Sebbene ci permetta di avvicinarci ai fatti, alle prove, al luogo del crimine, ci sembra che il significato più profondo del dramma continui a sfuggirci. Forse che stia proprio in quel dubbio, il vero significato?

“La mia presenza davanti al pubblico è un dispositivo di memoria, o un sopruso? Raccontando questa storia, sto esponendo i fatti oggettivamente, o semplicemente faccio coincidere il punto di vista della Storia con il mio? Ho l’impressione che queste domande rimarranno irrisolte.”

Foto © Masiar Pasquali