Bentornate Piccole donne: corriamo al cinema

In Cinema, Weekend

È il quinto adattamento, questo firmato da Greta Gerwig, del romanzo di Alcott: tra passato e presente, un inno alla ribellione e alla libertà femminile che non ha perso niente del suo slancio vitale

“Senza regali il Natale non sarà un vero Natale”, esclama Jo March. E subito le fa eco la giudiziosa sorella Meg: “Che cosa triste essere poveri”. “Non è giusto che alcune ragazze abbiano tutto e altre nulla!” ribatte la petulante Amy. Mentre la dolce Beth conclude: “Ma noi almeno abbiamo il papà e la mamma e siamo in quattro sorelle”. 

È con questo scambio di battute edificanti ma non troppo che si apre Piccole donne di Louisa May Alcott, un classico della letteratura femminile, lettura “obbligata” e fondamentale per tante di noi, che proprio sulle pagine di questo libro scritto nel lontanissimo 1868 hanno imparato le prime preziose lezioni di femminismo, prendendo le misure di un mondo (anche oggi, figuriamoci ieri o l’altro ieri) troppo spesso nemico delle aspirazioni femminili. 

Nel film di Greta Gerwig, il quinto tratto dall’immortale romanzo di L. M. Alcott, l’incipit vede protagonista soltanto Jo, che è già cresciuta, vive a New York e sta cercando di vendere i primi racconti a un grasso editore che sembra avere le idee molto chiare su cosa vogliono le lettrici: qualche situazione un po’ piccante e una protagonista che si trovi un marito prima della fine, o in alternativa (meschinella!) muoia giovane. Un incipit, tratto dal secondo libro della serie, Piccole donne crescono, che sembra fin da subito puntare i riflettori sulla vera e incontrastata protagonista della storia: Jo la ribelle, la piccola donna che corre incontro alla vita spregiando le tradizioni e ignorando le convenzioni. Insomma, Jo la scrittrice, perfetto alter ego di Louisa l’autrice. 

Ma attenzione: in queste scene iniziali non si parla solo di creatività ed espressione artistica, perché Jo scrive per dare sfogo al proprio talento, certo, ma i pochi soldi che guadagna con la scrittura rappresentano comunque una parte consistente del sempre precario bilancio della famiglia March. Insomma, Greta Gerwig fin dall’inizio ci parla di creatività e libertà al femminile, ma anche di denaro come utile, per non dire indispensabile strumento di autonomia. In questo riprendendo appieno le convinzioni di L. M. Alcott, cresciuta in una famiglia tormentata dalle difficoltà economiche ma sostenuta nelle sue scelte anticonvenzionali da un padre filosofo che vantava tra i suoi amici Ralph Waldo Emerson e Henry David Thoreau. 

Abbiamo detto che questo è il quinto film tratto da Piccole donne, dopo un film muto nel 1917, la versione del 1933 di George Cukor con Katherine Hepburn, quella del 1949 di Mervin LeRoy, con June Allyson (Jo), Elizabeth Taylor (Amy) e Janet Leigh (Beth), quella del 1994 firmata dall’australiana Gillian Armstrong, con protagonista Wynona Rider. Potremmo aggiungere per completezza che dal libro di L. M. Alcott sono stati tratti anche due film di animazione giapponesi e due sceneggiati TV, uno italiano diretto nel 1955 da Anton Giulio Majano e uno recentissimo trasmesso dalla BBC nel 2017. 

La domanda sorge quindi spontanea: davvero c’era bisogno di questo ennesimo adattamento? La risposta è un convinto sì, perché questa è forse la versione migliore di sempre, sicuramente quella più ambiziosa.

Greta Gerwig non si limita a mettere in fila gli episodi della vita della famiglia March così come li conosciamo. Prende la storia di Jo e delle sue sorelle e la destruttura, raccontandola attraverso una serie di flashback e muovendosi instancabile tra passato e presente, mescolando i diversi libri della serie e inserendo qua e là episodi della biografia della scrittrice. Una scelta interessante e destinata a rivelarsi vincente, soprattutto perché l’intento della regista non è quello di utilizzare una storia ambientata durante la guerra di Secessione americana per dipingere un pittoresco ritratto d’epoca della condizione femminile nella seconda metà dell’Ottocento, tra carrozze, cappellini e crinoline. Ciò che preme veramente a Greta Gerwig è mettere in scena una storia di formazione al femminile del tutto moderna, contemporanea anzi, che parla di aspirazioni, sentimenti e desideri, ma anche e soprattutto di spirito critico e indipendenza economica. Senza mai smettere di parlare di letteratura, naturalmente. E aggiungendo anche qualche riflessione non banale sul funzionamento dell’industria culturale. 

Dopo un magnifico esordio con Ladybird, Greta Gerwig si ributta nell’arena parlando ovviamente anche di se stessa, di cosa vuol dire essere un’autrice e una donna, oggi, a Hollywood, in un mondo in cui il potere è ancora in gran parte in mano agli uomini. Anche se tante cose sono cambiate e tantissime si stanno trasformando proprio adesso, sotto i nostri occhi. E chi poteva scegliere come alter ego, nei panni di Jo March, se non la bravissima Saoirse Ronan, già protagonista di Ladybird? E l’attrice di origini irlandesi non delude le aspettative, mettendo un’energia magnetica e selvaggia nella costruzione del suo personaggio, un’intensità febbrile, una capacità davvero sorprendente di conquistare il centro della scena. Anche il resto del cast è ottimo, con alcune punte di eccellenza: Florence Pugh nei panni della civettuola Amy, Emma Watson in quelli della dolcissima Meg, Meryl Streep nel ruolo dell’acida zia March, Laura Dern in quello di mamma March. E anche Timothée Chalamet è perfetto nei panni di Laurie. Un po’ meno Louis Garrel, piuttosto imbalsamato nei panni del professor Bhaer.

Parlando di femminismo e di letteratura, Greta Gerwig ha di recente dichiarato in un’intervista: «Perché i maschi non leggono Piccole donne? Noi ragazze leggiamo Moby Dick, anche se protagonisti sono una balena, un mucchio di uomini e neanche una donna». Una domanda piccola piccola, una provocazione tutt’altro che gratuita: un tentativo di chiedersi quali sono davvero i modelli che ci plasmano crescendo, spingendoci a dare vita a questa o quella figura sul palcoscenico del mondo. Come se la forza, e l’intraprendenza e il coraggio e l’ingegno e l’audacia e la fermezza – insomma, tutte le caratteristiche utili a gettarsi nella vita con energia per tentare di realizzare i propri sogni in modo non vicario – fossero sempre e soltanto tipiche dell’universo maschile, e solo da lì si potessero imparare. 

Per rendersi conto di quanto sia pervasiva questa idea, basta pensare all’ormai folta schiera di eroine hollywoodiane sempre inevitabilmente modellate sulle caratteristiche del potere maschile. Jo e le sue sorelle incarnano al contrario caratteristiche prettamente femminili, ma non accettano che tali peculiarità possano confinarle nel ruolo di mogli e madri. Vogliono di più, molto di più, senza per questo desiderare di trasformarsi in uomini. Nemmeno Jo, che pure gioca molto con i ruoli, si taglia i capelli, corre e si arrampica come un “maschiaccio” e a nessun costo si vuole sposare. Perché quello che la protagonista vuole non è altro che riaffermare il diritto a scegliere liberamente il proprio destino, “perché le donne hanno una mente, hanno un’anima, e non soltanto un cuore. Hanno ambizioni, hanno talenti, non soltanto la bellezza. E sono stanche di sentirsi dire che l’amore è l’unica cosa per cui sono fatte”.

PICCOLE DONNE di Greta Gerwig, con Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh, Eliza Scanlen, Timothée Chalamet, Laura Dern, Meryl Streep, Louis Garrel

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