Muzak – La musica come militanza

In Interviste, Musica

Attraverso la nascita e l’evoluzione di alcune delle riviste di critica musicale più emblematiche degli ultimi decenni, ripercorriamo la storia dell’evoluzione della critica musicale in Italia, dagli anni 70 a oggi.

La rivista Muzak nasce nel 1973 grazie al lavoro di un collettivo messo in moto da Giaime Pintor, figlio di Luigi che fu fra i fondatori del Manifesto. Il nome della rivista viene scelto da Giaime proprio per la sua accezione ironicamente dispregiativa, con un intento quindi critico-polemico da giornale di punta (muzak era il termine con il quale si indicava la musica di sottofondo, di ambiente).

Quando ho chiesto a Gino Castaldo – una delle penne più importanti del giornalismo musicale italiano che entrò a far parte di Muzak poco dopo la sua nascita – di parlarmi di Pintor, mi ha raccontato che “era una persona molto intelligente e un profondo conoscitore della musica classica, un intellettuale insomma. Ma comunque manteneva uno sguardo aperto su quello che era il presente e la cultura alternativa di quegli anni.”

Per questa ragione, forse, Muzak fin da subito si distingue per essere una delle riviste più alternative, dure e utopiche di quel periodo. Continua Castaldo:

 «Noi eravamo il giornale alternativo per eccellenza, avevamo una linea molto dura e libera, non avevamo un editore e, appunto, eravamo un collettivo. Il problema infatti era fare uscire il giornale mensilmente perché trovare i soldi non era facile: tutti ci occupavamo di tutto e lentamente entravamo nei meccanismi dell’editoria. Era straordinario perché era un’utopia, simbolo di quegli anni. Teorizzavamo la totalità della musica trattando dal jazz al cantautorato, passando per il rock e il blues. […] Diciamo che appunto questa è la prima fase, molto rudimentale e avventurosa e che era davvero molto impegnativa».

Questa prima fase di autogestione dura dal 1973 al 1975; poi il collettivo è obbligato a vendere il giornale alla Publisuono, una casa editrice che pubblicava materiale molto più tecnico o legato all’ Hi-Fi. Il nuovo editore per un primo periodo lascia totale libertà d’azione al collettivo, che ha così la possibilità di dedicarsi a tempo pieno al giornalismo in senso più ampio, non limitandosi cioè alla sola parte musicale. Abbastanza velocemente infatti la rivista comincia ad aumentare i contenuti sociali e politici a discapito di quelli strettamente musicali.

Le rivendicazioni delle varie anime della sinistra, dal PCI ai gruppi extraparlamentari, trovarono un megafono in questa rivista, come testimonia ancora Castaldo: «Questa è la seconda fase ed infatti fu anche molto meglio dal punto di vista giornalistico: non dovendo dedicarci alla ricerca dei soldi per le bollette avevamo più tempo e libertà per dedicarci al giornalismo. Avevamo stretti legami con i movimenti politici e con la realtà esterna. Ci fu infatti una progressione politica, diciamo, e si creò un comitato di garanzia interno al giornale che era fatto dai rappresentanti delle varie forze politiche: Lotta Continua, PCI, Autonomia Operaia ecc. Era un gruppo in cui ci consultavamo per decidere la linea editoriale, fondamentalmente».

A dimostrazione di quanto questo comitato di garanzia fosse importante basti pensare che nel 1976 Castaldo viene chiamato dalla allora appena nata la Repubblica per una collaborazione nella sezione musicale:
«Io gli risposi pure che non ero sicuro e che avevo bisogno di un po’ di tempo per decidere – pensa che tempi! Feci l’assemblea politica con i miei amici di Muzak per decidere se fosse giusta ed eticamente accettabile una collaborazione con la Repubblica».

Questa attenzione alla politica e alla società che caratterizza la seconda fase viene da subito resa nota al pubblico da Pintor con il cambio del sottotitolo. Se al momento della fondazione, nel 1973, il sottotitolo di Muzak era “Mensile di musica progressiva-rockfolkjazz”, nel 1975 diventa “Per usare la musica, la cultura e altre cose”.

La seconda fase della rivista si chiude più bruscamente della prima: come sosteneva Pintor, Muzak voleva essere il megafono delle discussioni che facevano i giovani riguardo i temi più controversi della società. A tale scopo nel novembre del 1976 la rivista pubblica un’inchiesta-questionario sulla sessualità fra i giovani, argomento tabù anche oggi e che in quel periodo gli costa una denuncia per corruzione di minorenni.

Riporto uno stralcio di un articolo del settimanale l’Espresso uscito  nel 1976 e che trattava proprio la questione Muzak: “a poco a poco, ‘Muzak’ andava rovesciando le proporzioni tra contenuti musicali e contenuti politico-sociali: sempre meno divi pop o rock, sempre più inchieste sull’occupazione giovanile, sulla contestazione nelle caserme, sul disagio nella famiglia e nella scuola, sulla droga e, appunto, sulla sessualità. I temi musicali non erano scomparsi ma venivano trattati anch’essi in modo politico. Si è arrivati cosi all’esplosione della “bomba” inchiesta sul sesso: ‘Muzak’ finiva sul banco degli imputati”.

Di lì a poco Muzak perde l’appoggio della Publisuono ed è quindi costretta a chiudere.

Le riviste che come Muzak avevano una forte connotazione politica non si chiedevano se fosse giusto mantenere questa impostazione, ma semmai come esprimerla e concretizzarla al meglio. Non c’erano dubbi sul fatto che musica, politica e società fossero solo alcune delle facce dello stesso prisma. E allora sorge spontanea una domanda: perché allora c’era questa visione così politicizzata del mondo della musica? Secondo Castaldo:

“Negli anni Settanta, anche se eravamo riviste di nicchia, l’ambizione era grande, pensavamo che le riviste come ‘Muzak’ sarebbero diventate sempre più importanti e seguite, cosa che invece è stata smentita dai fatti, perché le riviste sono rimaste di nicchia e sempre più legate a generi specifici. Si aveva l’impressione che la musica fosse una specie di militanza, c’era una politicizzazione, ma in senso molto romantico: sembrava che fosse uno strumento per modificare il mondo. Si aveva l’impressione di far parte di un’avventura culturale di cambiamento molto importante. Era qualcosa di più grande e non ci si sentiva minoranza nonostante lo fossimo, si pensava fossimo destinati a crescere e che stessimo lavorando per un qualcosa di più grande per cui era importante militare”.

Forse ai nostri occhi questa impostazione può sembrare utopica… o forse siamo noi che ci siamo inariditi e non ascoltiamo più la musica, la sentiamo e basta.

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